La società contemporanea soffre di un male: l’indifferenza.
Indifferenza alla memoria, alla storia, agli eventi e alle loro conseguenze.
L’uomo contemporaneo nonostante l’expertise di secoli e di svariati eventi continua sistematicamente a persistere negli stessi errori a distanza di tempo.
La sua bramosia di potere politico ed economico spinta da un pizzico di eccessiva presunzione, mette a riposo la memoria di un recente passato ricadendo inevitabilmente nel vorticoso labirinto di un errore, dal quale non sarà facile uscirne.
<< La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente >> (Hosbsawm).
Questo potrebbe essere l’errore reale della nostra società?
I giovani perdono interesse nella memoria storica perché stanchi di una realtà già vissuta, già vista, già studiata, che non appartiene più al loro mondo impregnato fin troppo nel benessere e nella velocità.
Radici salde che ti dicono chi sei, consentono di lasciare la chioma libera di oscillare; una chioma capace di resistere alle intemperie (grandine, pioggia o caldo sole che brucia); chioma che consente di stare a contatto con il cielo, persi tra le nuvole.. sognando chissà cosa..
Nell’ultimo anno diverse cose sono cambiate nell’assetto psichico delle persone, così come in coloro (che della loro salute mentale), si prendono cura.
Lavorare in tempo di pandemia nell’ambito della prevenzione e del benessere psicologico è quanto mai complesso, difficile e stancante.
A stancare non è la carenza di motivazione, l’interesse, il piacere. Scegli questo percorso per atto di amore (evitiamo quei discorsi vecchi e futili sullo studiare psicologia perchè hai problemi irrisolti, drammi esistenziali o fantasie narcisistiche); possono esserci – come in ogni ambito- persone più o meno mosse da questi punti ma fare un insieme unico, mi sembra un ragionamento euristico che poco ha di concreto.
Penso oggi a l’anno che è stato. Penso al Tribunale dei Minori e alla sospensione delle udienze, per mesi; ai centri di accoglienza per gli immigrati chiusi, agli sportelli di ascolto chiusi, ai centri di riabilitazione chiusi, al personale ridotto e/o licenziato.
Penso a Vittoria (nata Raffaele), alla sua transizione interrotta e alla convivenza forzata, in tempo di covid, con il padre che ne ha approfittato per fare lui la terapia alla figlia – a suon di botte- perchè “meglio un figlio morto che frocio”.
Penso a Monica e Guido, ai loro 4 anni fatti di una gravidanza interminabile, alle loro vite rivoltate come cassetti, da mani indiscrete, e al loro sogno di adottare un bambino interrotto 2 settimane prima della partenza.
Penso a Salvatore che in carenza di supporto psicologico, è ritornato alla droga. Salvatore non c’è più.
Penso ad Anna alle sue paure, alla psicosi puerperale e al terrore sperimentato “voglio uccidere mio figlio”.
Lucia sola in casa con i suoi deliri; fagocitata dalle ombre nere che le impongono di prendere un coltello e tagliarsi per perdere sangue fino a svenire.
Gaia e Maurizio che non hanno potuto portare la loro bambina affetta da una rara sindrome, all’estero.
Non sono etichette o diagnosi, sono storie ma sono soprattutto persone.
Hassan, Ismael, Nadir, Aisha, Kalima, Halima, Zaira, Amin.. ai loro immensi occhi neri e scuri. Ai centri di accoglienza chiusi – letteralmente- dalla sera alla mattina. Ai miei colleghi che sono finiti per strada senza la possibilità di preavviso, senza poter trovare un lavoro, senza giustifiche con le mogli o le fidanzate.
A questi ragazzi sopravvissuti al mare e alle mazzate della Libia.
Penso poi a Felice, ristoratore che ha dovuto chiudere e licenziare 12 dipendenti; al suo suicidio tentato per due volte.
Penso poi ad Emanuela e al dubbio lacerante che il marito sia il mostro.. artefice della violenza sessuale usata alle sue bambine.
L’elenco potrebbe continuare.
Queste sono alcune delle persone che in tempo di pandemia, hanno visto la loro vita ridefinita. Sono le stesse persone che insieme a molti colleghi coraggiosi, guardiamo negli occhi ogni giorno.
Alcuni colleghi (donne, in particolare) non sono riuscite a tenere il contraccolpo psicologico della pandemia e hanno abbandonato pazienti e lavoro. Molti colleghi, come me, prestano servizio gratuitamente per il territorio che amano e difendono senza fare chiacchiere ma con i fatti; dimenticati dalle istituzioni, dalla politica (tutta) e dal loro ordine.
So cosa vuol dire pandemia, covid; so cosa vuol dire implicazione psicologica della pandemia, ridefinizione dello spazio corporeo, personale e sociale.
So cosa vuol dire essere stanchi e vedere la stanchezza negli occhi delle persone che ogni giorno ti guardano in attesa di una risposta che – comunque- non potresti e che in ogni modo, non conosci.
La pandemia, insieme ai miei colleghi, la guardo ogni giorno negli occhi e ce la portiamo a casa quando la nostra mente invece che trovare pace, resta invasa dai fantasmi delle richieste, delle storie e delle vite interrotte.
Le nostre, in primis.
Questa cosa così fastidiosa – parola di soggetto allergico e asmatico- va SEMPRE messa. Ti salva la vita.
“Come facciamo a vivere senza le nostre vite? Come sapremo di essere noi senza il nostro passato?
JOHN ERNST STEINBECK
Le nostre vite sembrano – ultimamente- appartenerci sempre meno. De-storificati della nostra stessa essenza, della nostra vita, esseri senza essere disseminati al di qua di una invisibile barriera attestata sul reale dalla presenza di una mascherina.
Chi saremo (domani) se non sappiamo chi siamo, oggi?
Pare ormai certo, siamo in piena terza ondata. A causa delle cosiddette “varianti” del virus, al governo stanno valutando il ritorno alle restrizioni dure. Si parla di zone arancioni, arancioni rinforzate, rosse e rosso scuro..
La situazione è decisamente “snervante“, come sosteneva un mio paziente, qualche giorno fa. Dopo l’illusione di una situazione sanitaria più o meno sotto controllo, per circa due mesi, dopo l’allarme seconda ondata di un autunno “caldissimo”, il traguardo pareva vicino. La campagna vaccinale, la speranza di un nuovo anno, la scoperta di alcune cure efficaci, l’apertura delle scuole.. tutti sintomi di un ritorno alla insperata normalità. Ma, dopo un anno giusto dal triste inizio dell’emergenza sanitaria, eccoci di nuovo a ri-vivere le stesse paure, le stesse immagini, le stesse parole, gli stessi bollettini, le stesse minacce di chiusure drastiche.
In psicoanalisi, parleremo di “ritorno del trauma“, nel nostro caso, reale.
Il vissuto emotivo e psicologico per gli italiani, da nord a sud è allo stremo. Dagli ultimissimi monitoraggi, sullo stato psicologico della popolazione, effettuato dall’Ordine Nazionale degli Psicologi con l’Istituto Piepoli, la situazione è a dir poco allarmante. Il livello di stress degli italiani è tornato, in maniera molto preoccupante, ai livelli molto intensi dei primi mesi dell’emergenza dello scorso anno.
Il 62% delle persone intervistate, in queste ultime settimane, dichiara di aver raggiunto una condizione personale di stress, molto elevato. Quello di questi giorni è il livello più elevato registrato dall’inizio del nuovo anno. I risultati risultano ancor più significativi perché il 39% dichiara chiaramente di essere arrivata al limite massimo di stress. I risultati e le percentuali sono più o meno uniformi in tutta Italia: Sud (67%), Centro (64%), Nord (60%), Isole (61%).
“La situazione di grave stress psicologico permane – afferma David Lazzari, presidente del Cnop – ed è sempre più allarmante perché sta diventando strutturale. Ci vorrebbe una specifica attenzione sul tema, garantendo ai cittadini il necessario supporto. Ma come noto nel Ssn gli psicologi sono pochissimi col risultato che a curarsi è soltanto chi può permetterselo. Viene così negato il diritto alla salute. Preoccupa anche il comportamento del Ministero della Salute che sembra disinteressarsi al problema”.
Come purtroppo riferisce David Lazzari, la situazione psicologica pare non interessare al nostro governo e quindi non viene assolutamente considerata come prioritaria. Purtroppo gli effetti del disagio, della fatica psicologica e dello stress nelle persone, si comincia a notare e per quanto possa sembrare strano, riguarda anche gli “assembramenti” visti e fotografati in tutte le città italiane, nelle scorse settimane, durante i primi weekend primaverili. Comportamenti irragionevoli e assurdi che però potevano essere previsti, prevenuti ed evitati, se solo fossimo intervenuti sugli aspetti traumatici e sullo stress causato dal vivere un anno in “stato d’emergenza”.
In un articolo di novembre ho parlato degli aspetti psicologici della “Pandemia Silente“, mentre durante i mesi del primo lockdown ho parlato dei primi disagi derivanti dalle chiusure e dalla paura del “virus sconosciuto” (Il Carceriere Invisibile).
Prosopagnosia o Prosopoagnosia indica un deficit percettivo acquisito o congenito, del sistema nervoso centrale. I soggetti affetti da tale disturbo mostrano incapacità nel riconoscimento dei tratti del volto di una persona. Il disturbo può presentarsi in forma pura o associata ad altre agnosie (indica in generale un disturbo della percezione che comporta il mancato riconoscimento di oggetti, persone, forme, persino odori, in mancanza di disturbi della memoria, e in assenza di lesioni ai sistemi sensoriali). La prosopagnosia può pertanto presentarsi in comorbilità con agnosia visiva.
Un aspetto particolarmente interessante della prosopagnosia è la dissociazione tra riconoscimento esplicito e riconoscimento implicito (covert recognition). Da alcuni esperimenti sembra infatti che quando le persone affette da prosopoagnosia, vengono poste davanti a volti familiari e non, siano incapaci di identificare con successo le persone rappresentate così come sembrano incapaci di dare un giudizio di familiarità “Questa persona non mi è nuova!”. Quando però si effettua (negli stessi soggetti), una misurazione del responso emotivo (misurazione della risposta psicogalvanica), si registra una tendenza a dare una risposta emotiva davanti a immagini di persone familiari anche in assenza di un riconoscimento consapevole.
Ciò sembrerebbe dimostrare l’importanza delle emozioni e il loro ruolo cruciale nel riconoscimento dei volti; punto fondamentale se pensiamo a quanto siano state importanti, le emozioni, per la sopravvivenza dell’essere umano (pensiamo al riconoscimento facciale degli uomini primitivi circa i rappresentati della tribù di appartenenza),
Quanto siamo preoccupati per i nostri figli? Come è cambiata la nostra percezione dei bambini? Come noi adulti li consideriamo e come questo può influire sulla loro percezione del mondo e sul loro sviluppo psicologico, cognitivo ed emotivo?
Concordo appieno, personalmente con la definizione data da un Sociologo britannico, Frank Furedi, dei genitori della nostra generazione, ossia “paranoid parenting”.
In effetti, quella di genitorialità paranoica, è una definizione abbastanza forte e diretta, ma purtroppo, spesso e volentieri rispecchia appieno le caratteristiche di molti giovani genitori. Questo perché oggi si ritiene che i bambini siano fragili e debbano essere comunque e sempre protetti, da qualunque tipo di disagio, fisico o psichico.
Oggi gran parte della vita dei bambini è sotto il controllo attento dei genitori: a scuola, alla ludoteca, al parco giochi, dagli amici, alle feste, durante le attività sportive. Difficilmente restano soli e spesso non sono liberi di sperimentarsi.
L’ideale sarebbe lasciare delle libertà e offrire loro la possibilità di sperimentare le situazioni più disparate e complesse, sia durante il gioco, sia durante la quotidianità, a scuola, con gli amici e in famiglia. Ad esempio, l’effetto positivo sullo sviluppo cognitivo, del movimento all’aria aperta nei bambini è ampiamente dimostrato e attraverso il gioco all’aria aperta i bambini sviluppano anche capacità motorie e sociali.
Senza lo sguardo severo degli adulti è più facile lasciarsi andare e affrontare le attività di gioco in maniera più libera e spensierata. I bambini devono imparare a muoversi e ad interagire con il mondo circostante e solo con l’azione, l’esercizio e gli errori possono imparare ad affrontare le difficoltà e anche i pericoli. In tal senso l’ansia dei genitori può arrivare a consolidare nel bambino l’idea che il mondo sia un luogo pericoloso, brutto, sporco o inaccessibile.
L’intervento di una madre spaventata, che urla al suo bambino, che sta giocando saltando, “stai attento!!” può indurre nel bambino una paura irrazionale per un pericolo apparentemente inesistente. Un intervento simile, reiterato nel tempo genera un’estrema insicurezza nel bambino, che non ha potuto sperimentare, non ha potuto capire l’esito della sua azione, quindi non potrà apprendere da un eventuale successo o insuccesso, resterà con il dubbio e la paura di non potercela più fare. Ciò a lungo andare può consolidare l’idea nel bambino del mondo come luogo pericoloso, impossibile da affrontare senza l’aiuto dei genitori. Attraverso il gioco il bambino, simula, azioni e situazioni percepite come pericolose quando era più piccolo. Il gioco diventa quindi l’occasione di poter affrontare quelle paure e superarle, da soli o con gli amici, in modo sicuro. Se le situazioni percepite come pericolose dagli adulti, vengono sistematicamente ridotte e vietate ai bambini, resteranno e persisteranno, altrimenti sarebbero già state abbondantemente superate dagli stessi bambini. D’altra parte possono anche provare paura quando invece i genitori pretendono (esagerando) coraggio quando magari i loro figli non sono ancora pronti ad affrontare una determinata situazione.
L’eccessiva insicurezza e il timore del gioco può portare alcuni bambini a sentirsi poco capaci in tutte le attività. Tendono, infatti, a non muoversi facilmente, sono impacciati e poco coordinati e quindi si sentono emarginati e spesso umiliati. Preferiscono restare a casa a giocare “in modo sicuro” alla play o a guardare video sui social, piuttosto che uscire e giocare con gli amici.
La mancanza di movimento è un fattore di rischio da non sottovalutare: a risentirne è l’interazione sociale, la capacità di apprendimento, la capacità di comunicare con i pari, la fiducia in sè stessi e quindi è molto facile l’insorgenza di problemi psichici come disturbi dell’umore (depressione) e dipendenze.
La paura eccessiva dei genitori per ferite fisiche e psichiche, può avere paradossalmente l’effetto contrario e generare ferite psichiche più profonde e quindi più dolore e più problemi fisici.
Le ferite hanno anche lati positivi e permettono al bambino di crescere e conoscere il mondo. L’iperprotezione è dannosa per i bambini. L’apprendimento più duraturo e più efficace è quello basato sull’azione e sulla pratica.
Per concludere cito il grande Pino Daniele che nella sua “Yes I Know my way” :
Luisa entra in studio un giorno pieno di sole. La luce è così forte e accecante da penetrare persino nel piccolo studio in cui siamo creando strani giochi di luce e ombra diventando a tratti, ovattata. Una luce piena, satura e viva; luce che si scontra con il buio di Luisa.
Luisa ha 16 anni; è molto magra, ha un colorito non pallido ma bianco, occhi e capelli neri (i capelli sono stati resi ancora più scuri dalla tintura appena fatta). Luisa cammina in maniera sgraziata, ha la schiena leggermente inclinata in avanti; ha degli enormi occhiali neri (spessi e pesanti), un pantalone nero pieno di tasche e catene (molto più grande della sua reale taglia), una camiciona a scacchi nera e grigia e anfibi militari con punta di ferro.
La ragazza ha svariati (difficile dirne il numero) piercing disseminati ovunque sul viso (oltre che su altre parti del corpo, come le braccia), ha inoltre diversi tatuaggi (nonostante la giovanissima età).
Appena entrata Luisa sbuffa, mostra noia e rabbia per esser stata costretta a venire al nostro appuntamento
(Se Luisa avesse realmente sentito quell’appuntamento come un obbligo, considerando soprattutto l’età, non avrebbe mai varcato la tanto temuta porta).
Tira la sedia facendo tantissimo rumore (tanto da farla sbattere vicino al muro) e vi si getta sopra. Luisa assume una postura da strafottente, sfida il suo interlocutore in qualsiasi modo.. Comincia a mangiarsi le unghie (più che altro le pellicine visto che le unghie sono così distrutte da essere quasi inesistenti); sbadiglia, prende il telefono in mano e dice
“quanto devo stare in questo posto del cazzo? Non ho niente da dire.. mi ci ha portato quella rottura di coglioni di mia madre, facciamo presto che ho da fare”.
Luisa è completamente impenetrabile, nonostante la magrezza e la giovane età, la corazza che ha deciso di indossare sembra fatta di adamantio
(Luisa mi fa pensare alla lega metallica presente nelle storie della Marvel. L’adamantio è quasi completamente indistruttibile, le stesse metodologie utilizzate per modellarlo sono in grado di distruggerlo; sembra tuttavia impossibile da fondere. Luisa odia il caldo – sembra che la luce del sole non la sfiori minimamente- e sembra essere causa della sua costruzione, proteggendosi dietro una corazza auto creata e al contempo, sembra essere l’unica capace di distruggersi.
Luisa – nella mia visione- diventa una lega di adamantio)
La mamma di Luisa ha chiesto di poter “vedere qualche volta” sua figlia, una ragazza triste, chiusa e che odia tutto. Sa benissimo (lei almeno così dice) che l’adolescenza è una fase della vita complessa, lunga e difficoltosa “me lo ricordo com’era sa.. Dottoressa” eppure confrontando Luisa con le altre sedicenni, ha la sensazione che sua figlia sia diversa “troppo diversa” per essere una normale adolescente.
I primi incontri saranno tutti incentrati sull’insoddisfazione, la noia e la richiesta di poter andare via, nonostante ciò però Luisa continuerà ad essere presente e puntuale agli incontri.
Una ragazza presente e puntuale (seppur arrabbiata) ha poco in comune con la visione di una ragazza sciatta e senza interessi (descrizione fatta di Luisa, dalla madre della ragazza). Provando ad indagare il mondo della ragazza adamantio, emerge la sua insoddisfazione per il mondo moderno; sente di essere fuori contesto, luogo e tempo.
Luisa odia la luce perché -dice- le fa vedere il volto delle persone che non sopporta. Odia la musica contemporanea, odia la scuola, odia le coetanee “belle e angeliche”, odia il corpo.
(Nel corso dei vari incontri piercing e tatuaggi aumenteranno; spesso ho avuto la sensazione di essere carne lacerata e bucata. Luisa tratta le persone con cui si rapporta analogamente al suo corpo che è stato più volte bucato, inciso e ridefinito).
Luisa sembra non provare emozione o dolore, questo almeno il senso del suo rapportarsi al mondo circostante.
Negli incontri seguenti il ponte di collegamento trovato con la ragazza sarà la musica e la letteratura.
Mi piacerebbe poter dire di aver visto almeno una volta, sorridere, Luisa o di averla vista respirare dritta a pieni polmoni la primavera che ci circondava: così non è stato.
Luisa ha continuato a non trovare piacere intorno; definitasi anticonformista, ha deciso di continuare a riempire e nascondere il corpo e la fantasia alla luce, per scegliere le strade del buio “al buio siamo potenzialmente tutti uguali, Dottoressa. Il buio azzera i colori e crea ombre di te stesso.. A me piace il freddo della notte.. essere inconsistente..”
Abbiamo dovuto prendere atto del fatto che Luisa stesse (dal punto di vista prettamente psicologico) sviluppando una depressione.
Come ho sempre detto le persone non si obbligano al supporto psicologico, alla terapia, o ad eventuali visite presso la salute mentale.
Preso atto dell’evenienza, con la madre, abbiamo lasciato Luisa libera di scegliere per sé, ricordandole che la porta del nostro studio sarà sempre aperta; una piccola luce da poter abbracciare se e quando avrà voglia di sfidare e conoscere com’è quando il sole ti tocca la pelle e ti tiene al caldo. A Luisa ho poi ricordato che essere anticonformisti non è questione di colore di capelli pop o di piercing o stile di vita sregolato; essere anticonformisti è essere prima di tutto liberi nel cuore ma soprattutto nella mente (la nostra più grande conquista).
Luisa resta un puntino aggrovigliato che è passato nel nostro studio; un puntino fermo e statico al centro di un foglio bianco, senza contesto, colore o ambientazione.
Ieri sera ero intenta a leggere un po’ di notizie; mentre scorro e giro tra vari canali e siti giungono ai miei occhi tre notizie.
La cantante (..) ha finalmente un nuovo e bellissimo corpo da esibire “sono finalmente quel che volevo da sempre, essere” .. dice… Un’altra cantante ancora (questa volta americana) analogamente, senza chissà quale rinuncia alimentare, ha finalmente un corpo tonico e snello da esibire.. La terza notizia era invece di un’altra star che, fiera delle sue forme generose, può finalmente esibire questi (a parer di voce di popolo) kg in più.
Il corpo, diventato ora più che mai una questione ritorna alla ribalta.
Il corpo – ovviamente- femminile.
Non sono mai stata un’appassionata di discussioni da salotti televisivi, soprattutto di quelle discussioni in cui si cerca di dare un senso a tutti i messaggi veicolati dai social: il corpo è tuo, sei sempre bellissima, bisogna volersi bene.. Una serie di mantra motivazionali che ho sempre ritenuto piuttosto privi di contenuto.
Parlare del corpo esponendolo continuamente, dimenticandosi del contenuto, è un processo cui ormai siamo piuttosto abituati.
Il corpo della donna è – per questioni prettamente biologiche- portato ad esser sempre indagato, scrutato, guardato e giudicato; occhi indiscreti si posano continuamente sulle forme del corpo femminile per dar risposta ad una sola domanda: sarai idonea a portare avanti la specie?
La questione si pone nel momento in cui un corpo caldo, di sposa con una mente fredda.
Gran parte delle psicopatologie attuali, sono legate al corpo.
Abbiamo infatti:
Giovani che decidono di infliggersi dolore tagliandosi, scarificando con qualsiasi mezzo la loro superficie decidendo di lacerare il proprio contenitore per paura che il contenuto possa esplodere e strabordare fuoriuscendo come magma rosso, vivo, che tutto arde, intorno..
Giovani che decidono di eliminare il cibo “non ho bisogno di niente”; “sono più forte del bisogno/desiderio alimentare, del bisogno/desiderio che dovrebbe farmi vivere. Io sono puro spirito fluttuante, sono come le sante.. non ho bisogno di niente”.
Giovani – ancora- che mangiano fino a stare male e nel momento in cui sentono di non esser altro che contenitori pieni, senza confine alcuno, squarciano il reale vomitando, gettando tutto fuori di getto.. provocando danni al loro interno; danni che poi vedranno all’esterno concretizzati nel vomito che brucia e logora..
Giovani poi che riempiono ogni singolo centimetro del corpo col cibo, bevande.. qualsiasi cosa che faccia prendere il sopravvento al contenitore.. qualsiasi cosa che non faccia sentire la voce del contenuto, va bene.. Placare con ogni mezzo possibile le richieste di un apparato psichico debole e bisognoso di cure.. “Un biscotto cura più di un abbraccio”.
In ultimo, giovani, che passano ore ed ore ad allenarsi senza sosta. Gonfio muscoli.. rendo il mio sedere tonico e bello agli occhi dell’altro così da non evidenziare le mie (supposte) carenze.. “A nessuno piace un corpo che non sia bello!”
In una società in cui l’Altro si pone come uno specchio che riflette, però, un’immagine di me incongruente con il “mio senso di sé”, diviene difficile trovare un sostegno umano che deponga a favore di una mia unificazione. Se “Io” divento tale nella misura in cui il sostegno umano adulto mi ha (in precedenza) fornito una indicazione identificatoria aiutandomi a comprendere innanzi allo specchio (stadio allo specchio) che quella immagine era mia, cosa accade quando mi trovo di fronte una pluralità di altri, che continua a dirmi “questo sei tu”, ponendomi innanzi una immagine che non riconosco – nemmeno un po’ – come mia?
Arriviamo dunque alla possibilità offerta dall’Ideale dell’Io dato dalla pluralità delle immagini identificatorie offerte dal sostegno umano.
L’Io è infatti da immaginare come una sfoglia di cipolla (fatta di veli) e pertanto fatto dalla successione delle identificazioni compiute ; identificazioni che lasciano tracce, tracce dello sguardo altrui che si è poggiato su di noi, tracce del nostro sguardo poggiatosi su altro in ricerca di un riflesso unificante. Tali tracce si sovrappongono, stratificandosi fino a conservare qualcosa dell’impronta che le ha formate, la loro origine.
Solo nella misura in cui l’Io, nel suo essere formazione immaginaria, appare all’interno di questo quadro simbolico appena descritto, la spoliazione di tutti questi strati (della cipolla) può procedere all’infinito, offrendo una identificazione in grado di tenere, senza schiacciare l’Io.
Cosa vuol dire ciò?
Che la spasmodica ricerca del corpo perfetto, delle forme giuste da esibire; la ricerca costante delle labbra perfette, del selfie più giusto.. della “mia giusta forma”, non cesserà mai fino a che il mio Io non avrà trovato la sua giusta forma.
Non è un caso se queste star un giorno dicono di sentirsi bene nel corpo più generoso, e il giorno dopo sostengono con gran forza l’importanza di allenarsi e mangiare correttamente.
Il senso dell’umorismo è un segnale di intelligenza e abilità sociale ed è molto importante per la solidità di una relazione di coppia. Il fatto di poter scherzare con il partner aiuta a sdrammatizzare momenti complessi. Inoltre il fatto di riuscire a scherzare e ironizzare sui propri caratteri e sui propri difetti è un modo per accettare i propri limiti e può diventare una modalità alternativa ed efficace di dire all’altro quello che non ci piace, per provare a modificarlo.
Il fatto poi di riuscire a ridere delle stesse cose è decisamente la dimostrazione che si condivide la stessa visione del mondo e che si hanno tanti valori condivisi.
L’ironia, in generale, è una parte essenziale del nostro carattere e del modo di affrontare la vita e di vedere il mondo, è quindi molto importante che i due partner siano sulla stessa lunghezza d’onda, per mantenere un equilibrio positivo. Le relazioni si saldano infatti su quella che possiamo definire “risata positiva”, cioè quella che diventa parte di un linguaggio comune, condiviso, sdrammatizzante e autoironico. Una risata che nasce esclusivamente dal piacere di stare insieme, di condividere momenti e spazi di interazione e che non fa altro che saldare ancora di più quel legame.
Ad esempio, in una relazione che funziona bene e in cui ci sono buone “connessioni umoristiche”, si può sdrammatizzare anche su imbarazzanti “incidenti” sessuali, nei momenti di intimità; oppure si può apprezzare una battuta che sdrammatizza e che dia spazio alla normalità, in situazioni più o meno drammatiche, dove si vivono le cronicità di una patologia. La battuta in tal caso può aprire squarci di normalità e di spensieratezza che vanno oltre il pensiero negativo del malessere.
Ovviamente in tal senso, è inutile dire che la “risata negativa”, quella denigratoria e offensiva, non è assolutamente la stessa cosa della prima. Perché, all’interno della relazione, sarà usata solo per comunicazioni decisamente squilibrate e diventerà parte di un gioco di potere che farà molti danni alla relazione e a chi subisce. Chi scherza in maniera offensiva e aggressiva, non dà una bella immagine di sé e del suo modo di gestire le relazioni, in generale.
C’è quindi un lato molto positivo dell’umorismo e della risata, ma c’è anche un lato più oscuro. La risata e l’umorismo può avere varie sfaccettature negative e oltre a quella già citata, possiamo trovare nell’umorismo anche un modo sadico di interagire o un modo per evitare e negare determinate cose. Insomma ci sono persone che possono utilizzare una battuta o una risata, per evitare di affrontare problemi o squalificarli. In tal modo possono arrecare un danno al ricevente (che magari sta realmente chiedendo attenzione e aiuto).
Insomma, ridiamo di coppia, ridiamo insieme, ridiamo bene, ma non ridiamo dell’altro ed evitiamo di utilizzare l’ironia e le battute, per difenderci e per evitare di affrontare problemi.
“Verrà un giorno che l’uomo si sveglierà dall’oblio e finalmente comprenderà chi è veramente e a chi ha ceduto le redini della sua esistenza, a una mente fallace, menzognera, che lo rende e lo tiene schiavo… l’uomo non ha limiti e quando un giorno se ne renderà conto, sarà libero anche qui in questo mondo.”
Il pezzo che propongo stasera è noto e tendenzialmente piuttosto apprezzato.
Quello che mi colpisce è il termine cura; due sono infatti le parole che ho più a cuore “grazie e cura”.
La cura -che è una dimensione- prima personale poi rivolta agli altri, volersi e voler bene; amare e amarsi, concedersi e concedere..
Prendersi cura dell’altro: ascoltare, accogliere, tendere la mano, tendere e proteggere il tuo mondo collegandolo in ascolto dell’altrui mondo.
Cura come un caffè la mattina.. scendere di corsa le scale per rendere un ombrello dimenticato..
Cura come una coperta calda, che avvolge tiene e contiene le paure della notte..
Cura come due occhi fissi e presenti; occhi che non hanno bisogno di parole perché riempiono e seguono con la scia della luce che emanano gettando calore su di un corpo..
Cura come la ricerca costante, il dubbio incessante, la risposta alle domande…
Vi propongo un giochetto: guardate la seguente immagine e dite..
Chi secondo voi è Takete e chi Maluma?
Fonte Immagine Google.
L’esperimento Takete e Maluma indica un noto studio condotto in merito al fonosimbolismo (la capacità dei suoni di interagire, mediante le loro qualità acustiche e articolatorie, con il significato dei termini che veicolano).
L’esperimento fu condotto nel 1929 da Wolfgang Kohler sull’isola di Tenerife.
L’esperimento consiste nella domanda che prima vi ho posto; una volta mostrate al soggetto sperimentale le due immagini, si chiede, secondo lui quale siano i rispettivi nomi delle figure “chi è Takete e chi è Maluma?”
Nella maggior parte dei casi Takete viene associata alla figura spigolosa di sinistra e Maluma a quella sinuosa di destra; ciò è spiegabile con il fatto che ogni parola viene recepita dal cervello come un’immagine, a cui successivamente viene fornito un significato.
Il suono prodotto nella pronuncia della parola Takete risulta pungente e spigoloso rispetto alla parola Maluma, più morbida e rotondeggiante. In più, le lettere stesse che compongono le parole hanno dei caratteri simili a quelli riproposti nell’immagine: Takete è formata da due lettere T, che oltre ad avere un suono prodotto tramite la pressione della lingua contro i denti (strutture ossee che ricordano facilmente il morso di un predatore), vengono rappresentate dall’intersezione di due rette perpendicolari dunque rigide e ferme, e da una lettera K anch’essa pronunciata con lo schiocco della lingua sul palato e raffigurata da una linea retta verticale e due oblique.
Maluma è composta da due lettere M solitamente raffigurate in corsivo con due onde curve e una L che, sempre in corsivo, viene scritta con un simbolo simile ad un palloncino. In più la lettera M della parola Maluma ricorda facilmente il suono della parola Mamma, il più morbido dei nomi ed il più facile da associare al ruolo di genitore dolce ed amorevole.
Lo stesso meccanismo vale anche per suoni, colori, inoltre Takete e Maluma sono stati usati anche da compositori o scrittori (è lo stesso processo sotteso alla cura con cui si scelgono determinate parole o meno, durante la scrittura o determinati colori o tecniche pittoriche, durante il disegno).
Stasera vi racconterò di un fenomeno psicologico abbastanza comune, il cosiddetto Effetto Zeigarnik.
Le cose andarono più o meno in questo modo.
Erano gli anni ’30 del secolo scorso e la psicologa Bljuma Zeigarnik, durante una cena, osservò per puro caso un fenomeno particolare, che destò il suo interesse. Nel ristorante dove stava cenando, affollato di clienti, un cameriere pareva ricordare tutte le ordinazioni che erano state portate ai tavoli solo in modo parziale, ma aveva totalmente dimenticato tutte le altre ordinazioni che aveva già consegnato completamente.
Dopo questa osservazione, la psicologa Zeigarnik, decise di approfondire questo fenomeno e spiegare perché la memoria del cameriere riusciva a tenere in “magazzino” solo quelle che sembravano azioni non terminate, mentre invece dimenticava sistematicamente le azioni completate.
immagine google
Realizzò il suo studio coinvolgendo diverse persone a cui fece svolgere una serie di esercizi (una ventina di giochi mentali, enigmi matematici). Le persone coinvolte nello studio, alla fine dell’esperimento, riuscivano a ricordare molto più facilmente gli esercizi non conclusi, mentre tendevano a dimenticare quelli completati con successo.
Quest’effetto ci fa comprendere quanto la mente umana sia più facilmente portata a completare o continuare una azione già iniziata, piuttosto che cominciare e affrontare un compito partendo da zero. Nel caso del cameriere, infatti c’era un interesse intrinseco e una forte motivazione nel portare a termine le ordinazioni (compiti) che erano rimaste sospese, perché interrotte da altri stimoli. Nella mente del cameriere resteranno quindi in memoria, in attesa di essere completate, tutte quelle azioni che hanno bisogno di essere concluse, e la motivazione a terminare il compito (importante per la buona riuscita del proprio lavoro) terrà la “luce accesa” su quelle azioni insolute.
Una delle applicazioni moderne più comuni dell’effetto Zeigarnik è utilizzato nelle serie televisive, dove ogni singolo episodio di una serie finisce lasciando la narrazione della trama incompiuta, i cosiddetti cliffhanger. Ciò intende spronare chi guarda la serie a proseguire, senza pensarci, all’episodio successivo. Ecco perché sono così di moda e comuni le varie maratone tv, di serie famose. Nel recente passato, dove le serie venivano trasmesse a step settimanali, di massimo due episodi settimanali, lo stesso meccanismo creava una sensazione di suspance e attesa famelica. Oggigiorno la modalità di fruizione delle serie è diversa (con lo sviluppo delle piattaforme streaming tipo Netflix), quindi l’interesse è quello di far rimanere incollato lo spettatore allo schermo proponendo le stagioni intere delle serie. Si potrebbe dire che grazie all’effetto Zeigarnik, le piattaforme in streaming, offrono agli spettatori, una fruizione “bulimica” delle serie, con grandi abbuffate alternati a periodi di privazione, conditi da attese snervanti.
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Dal 2000 il temine ghosting è diventato sempre più frequente. Dobbiamo tuttavia aspettare il 2010 e l’aumento esponenziale delle piattaforme (e del loro uso) social, per sentire con maggior forza e presenza, utilizzare questo termine.
Cosa e chi sono, allora, questi fantasmi?
La pratica del Ghosting comporta l’improvvisa interruzione (senza motivo) di tutti i contatti che una persona, aveva con un’altra. Si tratta di una sparizione improvvisa e immotivata che un partner, amico o conoscente, può attuare, lasciando l’altro preda di dubbi, incertezze e dolore (come vedremo, infatti, il processo di dolore che la separazione e il lutto sotteso al fenomeno di sparizione, comporta, non è diverso da quello di una comune perdita).
Chi è allora che fa Ghosting e perchè?
Il fenomeno in questione è piuttosto recente; essendo vittima della moda del momento, è ancora sotto osservazione e oggetto di indagine. Quel che è certo, è che la vittima – colui che inconsapevolmente viene abbandonato- soffre.
Per Lacan la trattazione sul fantasma parte dal riferimento del rapporto costitutivo per la soggettività umana rispetto alla propria mancanza a essere. Il fantasma diviene la messa in scena; compiendo una grande compressione teorica, possiamo dire che il fantasma consente una relazione tra i tre registri dell’esperienza (reale, immaginario e simbolico), attuando anche una funzione protettiva.
Il fantasma -infatti- protegge sia dall’orrore del reale, ma anche contro tutti gli effetti della sua divisione (conseguenza della castrazione simbolica).
Laplanche e Pontalis (1967) sosterranno che il fantasma è definibile come “uno scenario immaginario in cui è presente il soggetto e che raffigura, in modo più o meno deformato dai processi difensivi, l’appagamento di un desiderio… inconscio”.
Il fantasma apre ad una concettualizzazione psicoanalitica piuttosto complessa; la fusione fantasmatica, ad esempio, di un tempo mitico in cui si viveva all’ombra del rapporto fusionale con la madre che tuttavia porta con sé il fantasma di frammentazione, smembramento, ovvero l’angoscia del corpo in frammenti.
Il termine ghosting è certamente indicativo e in quanto “estero” fornisce una chiave di lettura forse più “divertente” rispetto al semplice italiano “sparizione”.
Possiamo provare a fare una riflessione insieme.
Colui/colei che pratica ghosting è probabilmente una persona incapace di vivere il contraccolpo del proprio desiderio, avendo terrore di ri-sperimentare l’originaria angoscia di frammentazione. Incapaci, in sostanza, di vivere il confronto (adulto) di una relazione che chiede e domanda; di un partner (o amico, conoscente) che chiede – seppur in maniera implicita- attenzioni, amore, uno scatto nel rapporto, decidono di rendersi evanescenti e scappare.
Rendersi trasparenti, coperti come da un velo, velo che si decide a piacimento di alzare o abbassare (di solito queste persone fanno sporadiche apparizioni) rende la convinzione/illusione di trovare ancora lì quella persona complice di questo “non” esserci.
Il Ghosting fa male; il ghosting provoca dolore (psichico e fisico); il ghosting ha radici psicologiche ben profonde.
L’incapacità di saper portare avanti e vivere un rapporto “adulto”, ha probabilmente radici in stili di attaccamento (riferisco al rapporto col caregiver durante l’infanzia) deficitari. Un contenimento non (o mal) avvenuto, un’incapacità di dare nome al proprio dolore o al proprio vissuto, scarsa capacità empatica.. potrebbero essere alcune delle cause che possono portare alcune persone a compiere questi atti di sparizione.
Sparire è un atto di violenza.
Se decidi all’improvviso di tagliare i ponti senza dare anche la minima spiegazione, non ti stai proteggendo dalla sofferenza; ti stai solo barricando nel dolore del non detto (e il non detto uccide; non ha niente di bello come invece qualche influencer di turno sta provando a dire).
Il non detto crea un alone di dubbi, incertezze, sensi di colpa.. Crea e deposita nella mente delle persone lo stesso velo di sparizione che colui che ha attuato il ghosting, ha indossato; l’unica differenza è che chi ha attuato il ghosting lo ha scelto, la vittima: no.
Ci si ritrova, pertanto, soli in balìa del nulla, dell’attesa e del non senso.
Ci si sperimenta soli, piccoli e vuoti. Si ripensa ai momenti belli cercando in questi la minima sfumatura che possa giustificare un atto così doloroso che chi (diceva) di amarti, ha messo in atto.
Sparendo l’altro ha portato via un pò di me.
Il processo che porta a superare questo tipo di perdita è lungo, simile ma non assimilabile tout court al superamento di un lutto. Nel lutto, infatti, superi la perdita di un corpo (una perdita che si attesta sul reale); nel ghosting devi partire con l’elaborazione di un lutto “di un’idea”; di una immagine; di un fantasma.
Bisogna concedere a sé stessi il giusto tempo per soffrire del dolore, vivere dell’assenza e nell’assenza senza dimenticare che il fantasma in questione è stata una persona che per un certo periodo ha vissuto al nostro fianco.
Quando però qualcuno decide di abbandonare senza una spiegazione e crede nelle proprie difese (che non vengono abbassate nemmeno dinanzi a quello che dovrebbe essere un sentimento), val la pena chiedersi se ha ancora senso stare male per chi, per noi, non ha avuto il minimo tatto.
L’amore non è un atto dovuto.
L’amore è amore, energia, sentimento e passione.
Si tratta di due universi che entrano in contatto generando energia sempre viva, che si modifica, vive momenti di rallentamento o picchi improvvisi di velocità ma non è mai distruttiva.
La pulsione che genera e tiene viva una coppia può solo essere energia vitale.
Stasera vi ripropongo un articolo scritto un po’ di tempo fa, ma sempre molto attuale, nonostante la Pandemia. Parla del fenomeno migratorio e prende ispirazione dalla mia esperienza lavorativa di supporto psicologico ai migranti, nei centri di accoglienza sul territorio campano. Un lavoro intenso e spesso doloroso, a volte complesso (a causa dei pregiudizi delle comunità accoglienti), ma molto affascinante. Buona lettura!
Viviamo un periodo storico in cui sembra che quasi tutta l’attenzione mediatica politica e sociale, sia rivolta alle migrazioni. Addirittura alcuni partiti politici italiani, europei e statunitensi per ottenere consensi, hanno incentrato gran parte delle loro campagne elettorali degli ultimi anni su questa tematica, tendendo sostanzialmente a stigmatizzare lo straniero, l’immigrato e premendo su quella che pare essere una paura “antica” delle persone, la paura del nuovo, del diverso, dello sconosciuto.
Probabilmente conoscere alcune dinamiche psicologiche che caratterizzano l’esperienza migratoria, dal punto di vista del migrante e dal punto di vista di chi “accoglie” gli immigrati, potrebbe aiutarci a essere meno estranei all’estraneo.
Tendenzialmente, quando il fenomeno migratorio diventa “evidente e ingombrante”, perché invade i nostri luoghi di convivenza sociale, ci sentiamo smarriti e spaesati e ci rintaniamo in una posizione difensiva alzando alte barriere di pregiudizi rafforzati da collanti di moralismi e idee nazionalistiche.
Un giorno giravo tra i corridoi dell’Asl alla ricerca di un compagno di caffè. Qualche collega ne aveva bevuti già troppi.. qualcuno aveva la tisana fai da te portata da casa.. altri preferivano restare in studio..
Morale della favola: sono andata da sola a prendere il caffè.
Mentre sto scendendo la 4 rampe di scale vedo due ragazzi all’incirca di 17 anni parlare (il dialogo era in lingua napoletana, la traduzione è la seguente):
“Io Maria me la sposo.. frà! No dico.. ma l’hai vista? Non ci sto capendo più un cazzo.. Quella quando mi guarda si prende il cuore.. E’ una maledetta.. Tu dici che non è bella.. ma scherzi.. Qua o sei scemo tu o so scemo io”.
Caffè, quattro chiacchiere al volo con il ragazzo del bar, saluti, battute e si torna in studio.
La prossima visita è un caso nuovo.
Il ragazzo innamorato.
Felice è un ragazzo di 17 anni (sì, proprio quello che avevo visto in precedenza sulle scale). Ha chiesto di venire e procedere con degli incontri di consultazione perchè dice di non dormire la notte a causa di Maria.. una ragazza di 19 anni che gli ha rubato “il sonno e la fantasia”.
Una delle prime cose che colpisce di Felice è che sia stato capace di dare il nome ad un disagio; è stato lui a decidere di chiedere aiuto e agendo da piccolo uomo, è venuto insieme ad un amico presso il consultorio (ovviamente in quanto minorenne l’arrivo del ragazzo è stato preceduto da tutta una serie di procedure che però sono al momento irrilevanti).
Felice è il tipico ragazzo di oggi; curato e “tirato a lucido”. Appare sicuro di sé e gioca un po’ a fare il galletto della situazione.
Mi racconta di sé con una facilità allucinante; a differenza -infatti- di altri adolescenti che sembrano impenetrabili, Felice non mostra timore dell’altro. Si dice e ci dice senza filtri i suoi pensieri, evidenziando una capacità introspettiva notevole per l’età. Felice parla.. parla e parla ancora. Mi viene quasi il dubbio sul perchè sia da noi..
Racconta della palestra, della scuola, le partite di calcio e le canzoni.. Riporta in sostanza il racconto del tipico mondo/universo adolescenziale. Chiede se può fumare cacciando un po’ il petto fuori (postura riposizionata al rifiuto ottenuto).
Lasciato parlare come un fiume in piena, arriva per lui una risposta “Sono qui, quando vuoi, sono pronta ad ascoltarti ; sono pronta ad accogliere le tue parole”.
Felice fiume in piena straparlava senza dire nulla.
Felice, il galletto dalla rigida cresta assume adesso una postura chiusa, sembra quasi esser diventato un piccolo feto così chiuso su se stesso su quella sedia che sembra lontana – ora- anni luce.
Maria è una ragazza un po’ più grande di lui. Ha visto questa ragazza per caso un pomeriggio al parco e da quel momento è stato amore immediato (almeno per lui). Dopo un paio di giorni Felice ha tentato un approccio con cui è riuscito ad ottenere alcuni contatti da Maria. Da quel momento i due ragazzi cominciano a sentirsi sulle varie applicazioni notte e giorno diventando piuttosto intimi. Maria viene descritta quasi come una madonna.. Angelica e leggera (l’amico di Felice ha tutt’altra versione, invece) ma il nostro ragazzo così vede Maria e noi così la immaginiamo.
L’intimità raggiunta tra i due ragazzi viene descritta da Felice come un mondo parallelo, un universo di fiducia e di sensazioni belle; Felice ha quasi gli occhi lucidi quando mi dice che la buonanotte di Maria è il momento più bello della giornata “so che sono il suo ultimo pensiero, Dottorè!” .
(L’immagine di un ragazzino perso tra le strade della passione e dell’infatuazione del primo amore, è stata per me il corrispettivo dell’olio di mandorle solo che ad essere nutrito ed elasticizzato è stato il cuore e non la pelle).
I problemi sono nati nel momento in cui Maria è sparita. Di fatto ci viene detto che la loro non è mai stata una relazione; Maria era più grande e già donna (sembra, infatti, che la ragazza avesse sulle spalle diverse relazioni abusanti e una dinamica familiare piuttosto pesante. L’amico infatti di Felice sostiene che questa ragazza stesse solo giocando con Felice in quanto lui, essendo un bravo ragazzo, aveva preso a cuore la storia di questa donna che, invece, stava solo sfruttando la bontà dell’amico).
Felice ha quindi incominciato a non dormire aspettando questo messaggio della buonanotte che da settimane ormai non arriva più. Dice di aver perso interesse per la palestra (di cui era invece quasi dipendente); dice di non trovare più un senso alle cose (vicino alla maggiore età, il ragazzo aveva in programma di trasferirsi all’estero dopo la maturità).
Felice dice di avere dolore al cuore .. mi brucia in petto, Dottorè ..
Ciò che colpisce e viene evidenziato dai successivi incontri, è che Felice proviene da una famiglia fantasma. Il ragazzo vive in casa con la madre (i genitori sono divorziati da anni), in sostanza il ragazzo non ha mai vissuto il “clima affettivo” fatto dalla presenza familiare. Il ragazzo non sa cosa sia una cena tutti insieme a tavola la sera (mangia per lo più da solo). Dice che la casa è sempre vuota (la mamma ha un lavoro come manager e quando il figlio era piccolo, lo lasciava con la tata di turno). Cambiando spesso tata, Felice non ha potuto nemmeno legarsi ad una figura di accudimento di fiducia.
Il ragazzo ha pertanto dovuto imparare ben presto a accudirsi “psicologicamente” da solo.
Stremato da questa continua cura che ha dovuto concedersi, da solo negli anni, trova in una ragazza più grande la possibilità di essere contenuto e tenuto tra le braccia (in un incontro Felice racconta delle forme generose di Maria e della bellezza di essere tenuto stretto al caldo e vicino al cuore che batte).
La ricerca di un contenimento esterno, laddove nel corso della vita Felice ha vissuto un ambiente familiare piuttosto deprivante dal punto di vista affettivo, ha fatto crollare il ragazzo proprio nel momento in cui ha sperimentato – di nuovo- la paura del crollo (come dice Winnicott, infatti, la paura del crollo è probabilmente quella di un crollo già avvenuto nella vita del soggetto, un crollo già sperimentato; crollo a cui l’ambiente dovrebbe fornire contenimento).
Nelle settimane seguenti si è saputo che Maria si era trasferita fuori città forse con un altro uomo.
Felice che credeva nel per sempre, guardandomi un giorno ha detto che non aveva mai sentito così tanto dolore al cuore come in quel momento. Spesso infatti parlava di questi “pizzichi” che sentiva bruciare dentro. Devo dire che l’amico del nostro ragazzo si è dimostrato essere un ragazzo disponibile, maturo e accorto; si è infatti prestato come ponte di collegamento e supporto non indifferente ed anche lì.. Credo di aver visto uno degli esempi di amicizia adolescenziale più belli che mi siano capitati.
A suon di “scemo” M. è stato molto vicino al suo amico.
Felice un giorno ci ha guardati e ha detto
“Sono contento di aver conosciuto Maria e spero che lei sia felice ora. Non lo so perchè lei non mi ha voluto.. Non lo so se sono immaturo, piccolo.. se sono brutto, scemo o troppo intelligente. Non lo so perchè ci siamo incontrati; io però so una cosa. Lei a me mi ha visto, io invece l’ho guardata dentro.
Negli ultimi cinquanta – sessant’anni, l’allungamento della durata media della vita nell’uomo, ha portato a due fenomeni:
la diffusione sempre più allargata di famiglie con più generazioni in cui sono viventi fino a quattro generazioni contemporaneamente (bisnonni, nonni, genitori e figli);
una sproporzione tra la popolazione anziana e quella giovane (il numero delle persone con più di 65/70 anni è maggiore di quelle al di sotto dei 15 anni).
Inoltre a differenza di sessant’anni fa, quando si considerava una persona anziana già alla soglia dei 60 anni, oggi si considera una persona anziana, dopo i 70 anni (giovani anziani) e dopo gli 80 (grandi anziani).
La persona anziana in questa fase della vita è da sempre un riferimento per il resto della società. Proprio una buona organizzazione sociale deve poter garantire in questo periodo della vita un buon livello di benessere fisico e psicologico per gli anziani. Sono infatti i rapporti sociali, associati a ruoli di interesse e di rilievo per le altre generazioni (ad esempio: nonni che presenziano l’uscita delle scuole, che accompagnano i propri nipoti a scuola, che girano per associazioni e istituzioni scolastiche per raccontare le loro esperienze) a garantire un buon livello di benessere individuale, per la persona anziana.
Questi ruoli e questi rapporti sociali, riempiono momenti di vuoto e solitudine e integrano le relazioni familiari, che restano comunque essenziali e anzi rappresentano la risorsa principale e centrale. In questo modo la persona anziana ha un ruolo attivo all’interno del suo contesto sociale, anche quando ha smesso di lavorare attivamente. Oggi infatti vedere una persona sopra i settanta, impegnata nel suo lavoro, nelle sue passioni, con i propri nipotini o in attività sociali e culturali, rimanda ad una sensazione di continuità e vitalità.
L’età anziana corrisponde quindi ad un periodo della vita molto complesso, forse il più difficile dell’intero arco di vita, ma anche il più intenso e il più bello dal punto di vista della persona che lo vive. Perché, se non c’è la presenza di particolari patologie, l’anziano è una persona dinamica e attiva che può offrire molto, sia in famiglia che nel proprio contesto sociale. Spesso vive da solo e in coppia, per scelta propria, perché intende perseguire i propri interessi, senza condizionamenti e vuole godere dei benefici, anche economici, conquistati nel corso della sua vita lavorativa, infine non vuole essere un peso per i propri figli e nipoti.
La presenza insieme di più generazioni pone la famiglia, in senso allargato, di fronte a molteplici eventi critici e compiti evolutivi e spesso rende difficili le relazioni tra genitori e figli, in particolar modo quando l’età comincia ad avanzare e quindi c’è la comparsa delle prime patologie, anche invalidanti. Praticamente in questo periodo e fase della vita, gli eventi più critici corrispondono proprio al periodo in cui l’anziano ha bisogno di assistenza perché non può più vivere da solo. In questo momento la famiglia e i figli possono reagire in maniera completamente diversa e complicando o semplificando le cose.
Immaginiamo la situazione in cui siamo in un luogo affollato (un festa, ad esempio) dove la confusione la fa da padrona..
Ascoltiamo musica ad alto volume, brusio generale, rumori di qualsiasi tipo. D’un tratto però.. nel caos generale una parola (ad esempio il nostro nome) ascoltato tra i mille suoni, coglie la nostra attenzione.
Accade, pertanto, che nella confusione generale una sola parola, venga estrapolata.
Cosa accade e com’è possibile ciò?
Si tratta dell’effetto noto come effetto cocktail party , ovvero la capacità del cervello di azzerare il rumore e concentrarsi su una cosa in particolare.
L’effetto cocktail party è stato descritto per la prima volta nei primi anni ’50 da Colin Cherry, uno scienziato inglese. Cherry ha condotto una serie di esperimenti per determinare come le persone ascoltano.
A ben vedere, l’effetto (o meglio, il lavoro che il nostro cervello deve compiere), è ben più complesso di quel che appare.
Il nostro cervello – infatti- deve prima essere in grado di discriminare quel preciso suono (che ha colto la nostra attenzione), dal resto dei suoni. Allo stesso tempo, dobbiamo essere molto concentrati su quel suono anche mentre altra gente chiacchiera e ride attorno a noi, e con la musica ad alto volume.
Lo psicologo Frederic Theunissen dell’università di Berkeley afferma che vi sono aspetti della voce di una persona che si distinguono e che la rendono specifica (mi riferisco ad esempio al tono della voce, all’accento, alla prosodia in generale); queste caratteristiche specifiche rendono una certa persona interessante (più o meno di altre) tanto da avere la nostra attenzione.
Anche il modo che ha chi parla, di mettere insieme le varie parole oppure di comporre una frase, può influenzare la percezione di chi ascolta. Ad esempio, riusciamo a identificare meglio le parole se queste formano una frase sensata, rispetto a una serie di parole a caso.
Il grande lavoro del cervello.
Poiché non vi è alcun modo per escludere totalmente certi suoni dalle nostre orecchie e farne passare altre, tutti i suoni di un ambiente entrano nelle nostre orecchie e vengono tradotti in segnali elettrici nel cervello. Questi segnali si muovono in diverse aree cerebrali prima di raggiungere la corteccia uditiva, la parte del cervello che elabora il suono.
Secondo uno studio della Columbia University, il nostro cervello elabora tutti i suoni che le nostre orecchie percepiscono (i segnali che arrivano alla corteccia uditiva) ma solo quelli su cui ci concentriamo, raggiungono anche altre aree del cervello coinvolte nell’elaborazione del linguaggio e nel controllo dell’attenzione.
Con l’età, questa nostra capacità di focalizzazione sui suoni che ci interessano si indebolisce sempre più. Non si tratta tanto di una perdita di udito, quanto di una diminuzione dell’attenzione. Con l’aumentare dell’età, infatti, l’attenzione selettiva diminuisce comportando anche diminuzione nella capacità di seguire un discorso in una stanza piena di suoni.
E’ tuttavia possibile allenare o (ri) allenare il nostro cervello al fine di poter recuperare tale capacità
Le opportunità, se offerte allo stesso modo a tutti gli individui, possono generare uguaglianza e giustizia sociale. Se tutti hanno le stesse opportunità, la nostra società sarà destinata a progredire positivamente. Se tutti vengono definiti e giudicati per le loro reali capacità, queste verranno rafforzate e valorizzate.
Cos’ è il rancore? Il rancore è un sentimento spesso difficile da accettare, ma fa parte dell’esperienza e del vissuto di tutti. E sembrerà strano dirlo, ma può avere una funzione positiva perché ci aiuta a reagire nei momenti più dolorosi della nostra vita. Di questo però ne parlerò alla fine. Vediamo cosa si intende per rancore.
Il rancore è un sentimento complesso e nasce dal compendio di diverse emozioni semplici e complesse come rabbia, odio, risentimento, tristezza, astio e disprezzo. Ha qualcosa a che fare anche con emozioni e sentimenti più lontani, ma direttamente correlati come l’invidia (per qualcuno che, dal nostro punto di vista, ha avuto più di noi ingiustamente) e il rimorso ( per non aver reagito nella maniera giusta ad un offesa, ad esempio). Insomma il rancore è un sentimento, uno stato mentale duraturo e pervasivo. La differenza con la rabbia è da rintracciare nella durata (molto più lunga e permanente nel rancore) , nella reazione immediata (della rabbia) e intensa.
Lo stato mentale legato al rancore può restare latente e acuirsi improvvisamente, per poi tornare, presente ma costante. Difficilmente si estingue. La caratteristica pervasiva del rancore è proprio nel ri-sentire, rimuginare a lungo su eventi negativi (un torto subito) che inizialmente si legavano ad emozioni meno complesse, come tristezza o rabbia o odio, ad esempio.
Il rancore è direttamente collegato ad un dolore più “intimo” che può nascere da una ferita provocata da una relazione che ha tradito le nostre aspettative e che ci ha deluso profondamente.
Spesso il rancore può avere “radici familiari”, dove ad esempio possono capitare squilibri più o meno gravi, legati a preferenze, mancanze affettive percepite, difetti di comunicazione. In questi casi i più piccoli possono avere la peggio e cominciare ad alimentare il proprio rancore. Spesso nei bambini l’impossibilità di esprimere la propria rabbia genera una sensazione di impotenza che si trasforma in pensiero ripetitivo e poi in desiderio di vendetta. Le conseguenze potrebbero poi alimentare comportamenti disfunzionali come il bullismo; il rancore è però anche il sentimento prevalente di molte vittime del bullismo. In entrambe i casi, se non si interviene per tempo, le conseguenze possono essere serie.
In alcuni casi più gravi, negli adulti, il rancore può arrivare a sconfinare nella patologia. Lo si può trovare come sentimento preponderante nel disturbo paranoide di personalità e del disturbo borderline (presente con deliri), ma anche in chi soffre di aggressività patologica.
Insomma il rancore ha meno possibilità di “risolversi” e attenuarsi se resta esclusivamente una esperienza personale e interiorizzata. Come si può quindi convertire in positivo l’esperienza rancorosa? In genere la comunicazione può indurre il superamento e la psicoterapia può decisamente portare ad un cambiamento in positivo, perché attraverso essa si può avviare un processo di reinterpretazione di quella realtà che aveva generato sentimenti di rancore. Una nuova consapevolezza può aiutarci a ripartire e a riprendere di nuovo la nostra vita in mano.
Nel momento in cui eri lì al sole; un sole che ti avvolge come in uno di quegli abbracci infiniti.. senza tempo, senza spazio.. Quel tipo di abbracci che hanno un odore specifico, un sapore tutto loro.. dolce, acre, stucchevole, salato…
Una cadenza.. un ritmo..
Una salsa.. una rumba..
L’abbraccio che cinge ma non stringe perché apre alla bellezza della possibilità..
Ecco che arriva la notizia: Campania arancione..
Embè.. Bell e buon?
La risposta alla frustrazione diventa un pezzone e il mood è quello da manifestazione aggressiva.. Manifestazione da bandiera e assembramento…
Un Giudice, una buona scelta.. dal momento in cui qualche persona diversamente alta, ultimamente, è ritornata prepotentemente alla ribalta..
La verità è che non potrei mai scegliere un pezzo preferito, nel repertorio di Faber.
La sua musica è la musica della mia infanzia; con lui ci sono cresciuta ascoltando le cassette in macchina e avendo la fortuna di sentirlo ogni giorno in versione cover, live, voce e chitarra.
Uno dei ricordi (di sempre) più belli?
Una piccola spiaggia soffice soffice fatta per metà di alghe.. la luna piena.. il mare e la brezza avvolgente salata a tratti piccante della notte incipiente..
Fabrizio De André in tuor che fa da sottofondo. Trovo (che cu.. fortuna!) tutte le cose che preferisco, insieme, per qualche ora.. creando il momento perfetto.
Il mare, le stelle, la luna, la musica.. l’affetto, la fantasia: il ricordo.
Anni dopo nella stessa location, l’emozione si è ripetuta ma in modo diverso e il sale, il piccante e la fiamma erano due giovani ragazzi che si sentivano impeto e tempesta, metallo fuso colato e tenuto tra le mani strette.. avvolti nella speranza che potesse durare per sempre..
Nell’ambito della psicologia dello sviluppo due figure di spicco hanno fornito degli impianti teorici piuttosto ampi, circa lo sviluppo – in questo caso- del linguaggio.
Se per Piaget lo sviluppo è un’attività individuale, per la psicologia russa (di cui il massimo esponente è Vigotskij), gli esseri umani sono inseriti all’interno di un tessuto- contesto sociale ed il comportamento umano non può essere compreso indipendentemente da questo contesto.
Vigotskij si interessò al linguaggio interessandosi alle potenzialità del linguaggio stesso e alla sua relazione con la mente.
All’inizio pensiero e linguaggio sono indipendenti, il linguaggio non è concettuale e prende il nome di bubbling (suoni prodotti alla presenza di certi oggetti).
Intorno ai due anni poi, pensiero e linguaggio incominciano a fondersi. I bambini imparano che gli oggetti hanno un nome e le parole diventano simboli. Intorno ai tre anni il linguaggio si scinde in linguaggio interpersonale, comunicativo verso gli altri e in linguaggio egocentrico (ovvero il dialogo udibile che il bambino porta avanti con se stesso).
Il bambino parla da solo ad alta voce con una modalità ininterrotta e usa tale linguaggio per guidare un pensiero per risolvere un problema (si tratta, in sostanza, di quei bambini che vediamo giocare e parlare da soli per ore intere).
Intorno ai sette/otto anni, il linguaggio egocentrico scompare per diventare linguaggio interiore.
Quando i bambini devono risolvere un problema, invece di rivolgersi agli altri, si rivolgono a se stessi: l’interpsichico diventa intrapsichico, la comunicazione interpersonale diviene intrapersonale.
Se per Piaget il linguaggio egocentrico indica una incapacità del bambino di far suo il punto di vista dell’altro (essendo quindi inutile al bambino), per Vigotskij tale linguaggio aiuta il bambino a dirigere le sue attività di soluzione dei problemi.
Per Vigotskij pensiero e lin guaggio hanno un inizio indipendente per poi fondersi parzialmente. Il linguaggio dà una notevole spinta alla cognizione e permette forme di pensiero che non sono possibili senza l’aiuto del linguaggio.
Pensiero e linguaggio non si sovrappongono mai completamente neanche negli adulti.
“Ieri non è che un sogno e domani è solo una visione, ma ogni giorno ben vissuto rende ogni ieri un sogno di felicità ed ogni domani una visione di speranza”.
MIGUEL DE CERVANTES
Meglio “ieri” già sogno o un “domani” che non è ancora ma forse.. sarà?
“È reale ciò che viene definito tale da un numero sufficientemente alto di essere umani. In questa occasione estrema la realtà è una convenzione interpersonale, proprio come l’uso di una lingua si basa sull’accordo tacito e per lo più assolutamente inconscio che determinati suoni e segni abbiano un ben preciso significato.”
Paul Watzlawick
Chi ci dice che è reale?
Può essere che ciò che consideriamo come realtà sia il risultato di una mera convenzione sociale? Probabilmente è proprio cosi..
Quella di Phineas Gage è forse una delle storie più utilizzate e raccontate nei manuali e nei testi universitari di Psicologi, Neuropsicologi e probabilmente anche di Neurologi e Psichiatri.
La storia di Gage è piuttosto drammatica, ma con un probabile finale a lieto fine. Inoltre ha un grandissimo interesse scientifico, proprio a causa della eccezionalità dell’evento, assai complesso (forse impossibile) da ripetere.
Gage aveva circa 25 anni e correva l’anno 1848. Lavorava come caposquadra alla costruzione di una ferrovia nel nord-est degli Stati Uniti. Un giorno per un errore nel maneggiare un esplosivo, una sbarra di ferro, presente sul luogo dell’incidente, lunga circa un metro e pesante sei chili, proiettata in aria dall’esplosione, gli trafigge il cranio.
Probabilmente Gage era un uomo fortunato perché, la traiettoria della sbarra di ferro sarà tale da trafiggere la parte bassa dello zigomo, di attraversare la parte frontale del cranio, per poi uscire dalla parte alta. La sbarra la troveranno a circa venti metri dal corpo. Gage incredibilmente sopravvisse. Infatti perse i sensi per alcuni minuti, ma si risvegliò cosciente. Dopo aver curato le ferite, Gage fu dimesso e andò a vivere dai genitori. Dopo averlo soccorso, uno dei medici che lo curò, Martyn Harlow disse: “l’equilibrio tra le sue facoltà intellettive e propensioni animali sembra distrutto”.
Questo caso è portato ad esempio proprio per la comprensione del ruolo dei lobi frontali del cervello, come sede della personalità. Nonostante i danni neurologici in quest’area del cervello, una persona sarà capace di vivere e svolgere le normali funzioni, ma avrà degli evidenti cambiamenti nella propria personalità.
Prima dell’incidente (raccontano le cronache), Gage era benvoluto e determinato, un gran lavoratore. Dopo l’incidente diventa irrispettoso, volubile, osceno, incapace di tenersi un lavoro. si racconta che nel 1850 troverà lavoro esibendosi come attrazione da circo nelle città nord americane.
La sua vita, poi prenderà una svolta, troverà infatti lavoro in una ditta di trasporti in carrozza nel New Hampshire e dopo un anno e mezzo si trasferirà in Cile, dove guiderà la diligenza tra Santiago e Valparaiso. Nel 1859, la sua salute peggiorerà, sarà quindi costretto a ritornare in patria. Si riprenderà e continuerà a lavorare fino al 1860. Morirà circa 11 anni dopo il suo incidente.
Una foto di Phineas Gage e del suo cranio – (immagine google)
Nella normale narrazione che si è fatta per anni, si è dato molto risalto alle conseguenze, neurologiche e psicologiche dell’incidente, ma forse quel tipo di narrazione (Gage non era più Gage) è stata un po’ “esagerata”. In alcuni documenti trovati nel corso degli anni e risalenti al 1850 e al periodo cileno, Gage è descritto come una persona del tutto guarita e capace di lavorare e prendere decisioni. Il fatto di essere stato capace di guidare, a metà del diciannovesimo secolo, le diligenze per circa dodici ore al giorno, non era affatto una cosa semplice. Come dice Mcmillan (un ricercatore che ha studiato a fondo la sua storia) “occorrevano complesse abilità sensoriali, motorie e sociali” per fare quel tipo di lavoro.
A quanto pare Gage era riuscito a riabilitarsi, tanto da affrontare compiti impegnativi e routine ordinarie per una persona normodotata.
Negli ultimi studi fatti (basandosi sui resoconti dell’epoca e sul il cranio di Gage conservato all’epoca da Harlow), anche con tecniche computerizzate, in grado di simulare l’impatto la traiettoria della sbarra, si è potuto accertare che fu colpito l’emisfero sinistro. Erano stati danneggiati tratti della materia bianca nel lobo frontale sinistro, ma non nel destro. In realtà poi questi studi concludono che in effetti non possiamo avere la certezza assoluta del percorso della sbarra e delle parti del cervello danneggiate, perché la posizione del cervello nel cranio e la locazione dei vari centri al suo interno possono cambiare leggermente da persona a persona; inoltre si ignorano i danni aggiuntivi dovuti all’impatto, all’ematoma, alla perdita di sangue, alle schegge di osso e alle probabili infezioni.
In ogni caso, se l’emisfero destro era rimasto intatto è molto facile immaginare che avesse supplito, sostituendosi, alle funzioni perse all’emisfero sinistro.
Il termine Persona proviene dal latino gettando, tuttavia, radici nel più antico etrusco phersu, indicando la maschera che l’attore indossava per incarnare il personaggio da rappresentare.
Ognuno di noi è convinto di essere una persona; persona (quindi maschera) che indossiamo durante la nostra esistenza.
Ne deriva che la persona è la maschera che incarna il personaggio che ciascuno ritiene di essere.
In tal senso la maschera può essere immaginata come la superficie, un sottile (ma penetrabile) velo di apparenza che cela dietro la leggera trama di rivestimento, la verità soggettiva e che nasconde, contiene, il reale (nostro); reale che tormenta a tal punto da non volerne sapere, troppo.
Come si costruisce la maschera?
Lacan sostiene che la maschera si costituisca attraverso l’Altro. Esemplificando di molto il concetto, possiamo sostenere che non c’è niente di più simile a noi stessi, di quella maschera che noi indossiamo in seguito all’identificazione simbolica con l’Altro, identificato da noi come colui che detiene diritto e mezzi per poter godere del nostro desiderio.
Da questo piccolo punto, deriva la nostra quasi ossessione per l’Altro visto da noi, come l’unico detentore delle chiavi del nostro desiderio del quale può godere, pur non essendo suo.
La maschera “rigido” supporto di contenimento dice tutto e niente.
Posso indossare una maschera triste sentendomi però allegro; posso indossare una maschera allegra sentendomi di converso triste; posso indossare una maschera fissa, dall’espressione cerea.. senza lineamenti o coperta di rughe.
La maschera inquieta perchè ha la capacità di creare uno strano gioco in cui ciò che è noto diventa ignoto e ciò che è ignoto diventa una possibile verità rendendo il tutto, preda di dubbi e incertezze.
La maschera poi crea una specularità, un doppio di sé analogamente a quando l’infans innanzi allo specchio preda del dubbio circa la sua immagine (sua ma altro da sé), ha bisogno del sostegno umano che gli indica “questo sei tu”, restituendo lui una prima forma di identificazione (una identificazione con un altro da sé essendo l’immagine sua, ma riflessa nello specchio, pertanto altra).
La possibilità di vacillare e rivivere l’incertezza di quella prima forma di identificazione avvenuta con lo stadio allo specchio, rende terrorifico l’incontro con la maschera.
Un altro me o un me altro; un Io doppio o un doppio Io..
Che nella giornata delle maschere diventa un raduno in cui Uno, Nessuno e centomila possono analogamente pensar:
“Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere”.
Stasera vi ripropongo un articolo molto interessante sul Disturbo Paranoide di Personalità, sulla Paranoia e sull’uso della parola nel quotidiano e la differenza con l’uso specifico in Psicologia Clinica e Psichiatria. Buona Lettura!
Oggi il termine Paranoia è spesso utilizzato in maniera
errata,(rispetto al suo reale significato), in particolar modo nel gergo giovanile
dove il termine sembra essere spesso utilizzato come rafforzativo di noia o in
maniera imprecisa, per evidenziare una personale situazione di ansia, forte
stress, paura e angoscia, dovuta a situazioni spiacevoli personali (andare in
paranoia, cadere in paranoia, stare in paranoia) e a condizioni passeggere di
alterazioni mentali legate all’assunzione di droghe o alcol (“questa roba mi fa
andare in para”).
Il termine Paranoia (in psicologia e psichiatria) in realtà
indica uno stile pervasivo del pensiero legato a un sistema di convinzioni,
spesso a tema persecutorio che però non corrispondono alla realtà. In realtà il
significato del termine ha subito numerose variazioni nel corso degli anni e
dell’evoluzione degli studi clinici in psicologia e psichiatria. Inizialmente,
infatti il termine “paranoia” (utilizzato già in greco, con il significato di “follia”), venne…
-Aspetta! Aspetta! Voglio soltanto che aspetti ..un po’.
-..Va bene.
-Davvero?
-Io non sono sono un’idea, Joel, ma una ragazza incasinata che cerca la sua pace mentale, non sono perfetta.
-Non riesco a vedere niente che non mi piaccia in te, ora non ci riesco.
-Ma lo vedrai, ma lo vedrai! certo col tempo lo vedrai, e io invece mi annoierò con te, mi sentirò in trappola perché è cosi che mi succede!
-Okay.
-Okay? …Okay?
-Okay.
Il dialogo (finale) che avviene tra Joel e Clementine. Il film è “Eternal Sunshine of the Spotless Mind“.
Un “Okay” che riempie lo spazio di una relazione non ancora avvenuta (in realtà sì, ma bisogna vedere il film)..
Un Okay che risuona e crea una eco silenziosamente rumorosa e prepotente; eco che diventa una scossa viva (che potrebbe bruciare), a cui attaccarsi, nella speranza che un amore, possa essere.
“Okay”.. che importa se andrà a finire male..
Un pianto accennato e la risata che prende il sopravvento spianando le rughe e le occhiaie che hanno accompagnato degli occhi stanchi e persi tra i pensieri del ricordo.. desiderosi invece: di viver(si).
“L’affermazione della propria vita, felicità, crescita, libertà è determinata dalla propria capacità di amare, cioè nelle cure, nel rispetto, nella responsabilità e nella comprensione. Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente.”
Eric Fromm
Immagine personale
In una relazione di coppia, il sentimento che fa da legante è l’amore. L’amore è un sentimento complesso e deve essere un “agito” produttivo, proprio come dice Fromm, che deve investire anche se stessi. Chi è capace di amare se stesso, sarà sicuramente in grado di amare anche l’altro; chi invece può amare solo l’altro e non riesce ad amare se stesso, avrà una esperienza dell’amore probabilmente incompleta.
Entrare a contatto con l’Azienda Sanitaria Locale è stata per me, l’esperienza. La possibilità di vedere, facendone parte, le dinamiche sia aziendali ma soprattutto umane, resta uno dei bagagli personali e professionali maggiormente arricchenti.
Notoriamente ASL equivale all’inizio di tutta una caterva di pensieri (negativi), di bestemmie tirate dall’utente di turno perchè “questo o quello” non funziona, perchè i locali sono sporchi, perchè la gente all’interno chissà chi deve ringraziare per essere lì, e così via..
Il bacino d’utenza che spesso l’ASL di competenza di un determinato comune, deve sostenere, è di norma molto (più) elevato delle risorse che il distretto ha a disposizione (nel mio caso, una psicoterapeuta fornisce un servizio per un bacino d’utenza immenso -evito di dare numeri precisi, nonostante li conosca-).
Quando all’università studiai per l’esame di “Teorie e Tecniche del Colloquio Clinico”, una buona parte era dedicata a una cosa che presto, avrei avuto modo di vivere sulla mia pelle.
Il Luogo del colloquio.
Quando parliamo di luogo, intendiamo con esso gli “aspetti materiali” ovvero il dove il colloquio stesso ha luogo. Senza dilungarmi su questa questione, posso dire che una prima distinzione è quella che si ha tra contesto privato e pubblico.
Il contesto pubblico prevede anche il contesto istituzionale: e qui arriva il bello.
Semi (1985) richiama all’elementare concetto di stanza, ovvero di un ambiente circoscritto, delimitato da pareti, finestre e porta…
La Porta..
La porta di una stanza per i colloqui deve essere una porta a tutti gli effetti; non dovrebbe essere trasparente alla luce o ai suoni; dovrebbe essere dotata di una maniglia e serratura. Non bastano separè di fortuna.
La porta può essere aperta o chiusa.
La porta non si può simbolizzare.. C’è e significa qualcosa.
La porta è il confine indica che c’è una separazione tra “dentro e fuori”; indica che io sono appena entrato in uno spazio neutro che ora è mio, uno spazio protetto e di protezione dove io sono chiuso e separato dal resto; uno spazio in cui io posso essere e in cui sentirmi libero di fluire, insieme alle mie parole.
Durante i colloqui accade spesso (troppo), che senza nemmeno bussare le persone entrino prepotentemente in maniera supponente, aggressiva e con tono/aria di superiorità. Nella migliore delle ipotesi bussano (almeno) ma alla “non risposta” entrano ugualmente.
La cosa interessante è che fuori allo studio c’è un bel cartello gigante con “colloquio in corso” e che la segnaletica (causa ultimi anni di lavori) dell’ASL, sia enorme, bella colorata e distribuita dal piano terra fino all’ultimo.
Questo cosa vuol dire?
Che con un pò di buona volontà, se hai bisogno del diabetologo sai, venendo dal piano terra, che lo troverai al secondo piano e non in una piccola stanza umida, in fondo a tutto dove c’è scritto “colloquio in corso”.
Ho visto spesso (troppo) le facce smarrite e piene di vergogna delle persone che stavano parlando, nella speranza che quel momento fosse loro dedicato; così come ho visto la collega dare di matto per l’indifferenza delle persone.
In quello spazio tra l’indifferenza e la vergogna, ho spesso dovuto spiegare all’utente che chi non è capace di prendersi cura di se stesso (essendo anche incapace di leggere una indicazione), non sarà mai capace di prendersi cura dell’altro.
“ Distratti da noi, fino a diventare perfetti sconosciuti a noi stessi, ci arrampichiamo ogni giorno su pareti lisce per raggiungere modelli di felicità che abbiamo assunto dall’esterno.”
“Mi guardano di continuo e tutti sanno cosa penso.. cosa provo”.. “Oggi non sono bella e tutti lo stanno notando”..
Semplice illusione o realtà?
Quanto siamo realmente al centro dell’attenzione?
Buona Lettura.
Chi ci sta intorno è realmente attento ad ogni nostro cambiamento (fisico o emotivo), oppure si tratta solo di un’illusione?
Spesso quando ci troviamo in una situazione (nuova o consolidata che sia), siamo portati a percepirci come sotto la luce di un riflettore. Siamo in sostanza convinti che ad esempio il modo in cui siamo vestiti,come stiamo parlando, come ci stiamo muovendo, sia continuamente osservato e giudicato “dall’altro”.
Immagine fonte “Google”
Si
tratta del fenomeno definito “effetto
spotlight” (effetto riflettore),
ampiamente studiato nell’ambito della psicologia
sociale. Nell’anno
2000 Gilovic,
Medev e Savitsky, decisero
di condurre un esperimento nelle aule universitarie, per controllare
se effettivamente le persone notassero dei cambiamenti o dei
movimenti nel loro interlocutore. Ad un gruppo di studenti fu chiesto
di indossare una giacca bizzarra e stravagante, prima di entrare in
aula. Il
50% di questi studenti (prima di entrare in aula) dichiarò di essere convinto…
“Preposto al servizio delle stelle, / Io giro, come una ruota, / Che s’invola all’istante sull’abisso, / Che finisce sull’orlo del precipizio, / Io imparo le parole”
Velemir Chlebnikov
Al servizio delle stelle, con lo sguardo all’insù o sull’orlo del precipizio, con lo sguardo all’ingiù?
In questi mesi abbiamo descritto in alcuni articoli le diverse sfaccettature del narcisismo, a partire dagli studi fino alle implicazioni Cliniche degli aspetti patologici delle personalità narcisistiche.
Oggi vi propongo uno spaccato cinematografico che attraverso due maschere, due personaggi molto conosciuti può raccontarvi in maniera più diretta questo disturbo di personalità.
Parliamo di Tony Stark, protagonista di “Iron Man” e di Miranda Priestley, protagonista del film “Il Diavolo veste Prada”. Proviamo a guardare a fondo a le loro storie per comprendere al meglio da dove nasce il loro narcisismo.
Iron Man nasce in Afganistan. Tony Stark è un miliardario visionario, un genio, ma anche un grande patriota americano. Viene idolatrato dai soldati, sempre elegante, nodo alla cravatta allentato, occhiali da sole a specchio e whisky in mano. Si presenta come un uomo sfrontato, esibizionista e seduttore. Il narcisista potrebbe proprio apparire così. Toni Stark non fa altro che esagerare con la sua eleganza e sottolinea spesso la sua genialità, gira con una macchina lussuosa. Non disdegna la platea e la folla che lo acclama, ama essere protagonista con le donne e ama sedurle e affascinarle.
Iron Man – Tony Stark (immagine google)
In Iron Man 2 la sua entrata in scena è paradigmatica: sul palco della “Stark Expo”, elegantissimo nella sua nuova armatura dice: “non voglio dire che il mondo conosce il più lungo periodo di pace ininterrotta grazie a me”.
Nel caso di Miranda Priestley è un po’ diverso il modo di esprimere la propria superiorità agli altri. Infatti, a differenza di Tony Stark, che pare godersi la vita e la sua opulenza; Miranda pare invece più bisognosa di un lusso che la porti invece lontana dalla gente comune. Per tutto il film infatti il suo personaggio tende a scappare dagli altri, è condiscendente e spesso irritata dal contatto con gli altri. Molto significativa è la scena in cui assistendo all’anteprima (realizzata per lei) della collezione di uno degli stilisti sue creature, praticamente “distrugge” con il proprio atteggiamento le ultime creazioni, squalificando tutto il lavoro fatto. Accoglie la nuova assistente, sbagliando continuamente il nome e le anticipa che probabilmente andrà a finire (male) come le altre che l’hanno preceduta. La sua frase di commiato “è tutto!” è il massimo del disprezzo narcisistico, rappresenta infatti il totale disinteresse all’opinione o al pensiero dell’altro.
Il Diavolo veste Prada – Miranda (immagine google)
Nonostante in entrambi i film venga poco rappresentato il vuoto, la noia e la solitudine, la si può comunque percepire e in effetti rappresenta quella che è la vera esperienza narcisistica. Il narcisista vuole infatti sfuggire al buio del proprio vuoto e la sua ricerca di ammirazione è un tentativo disperato di sfuggire al timore di essere ostacolato e quindi anche privato di quelle cose che non vuole perdere e che dal suo punto di vista gli spettano di diritto.
Tutti abbiamo un’immagine del tipo di persona che crediamo di essere ed in parte, ciò riflette il modo in cui gli altri ci vedono, il sé- specchio di Cooley (1902).
Il sé, tuttavia, rappresenta principalmente una nostra creazione che è determinata dai valori e dalle predilezioni di ciascuno; questa possibilità può però scontrarsi con l’immagine che gli altri hanno di noi, portandoci a percepire un’immagine nostra, ma distorta (se messa in relazione con ciò che gli altri vedono).
Il prodotto dei nostri sforzi costruttivi è il concetto di sé che si riferisce agli aspetti cognitivi dell’organizzazione del sistema di sé ed esprime la conoscenza soggettiva psicologica e fisica che gli individui hanno di se stessi.
Il concetto di sé non è statico, ma è continuamente modificato dal processo di autosservazione (L’Io che guarda il Me); è inoltre influenzato dall’esperienza e dalle sensazioni di capacità o incapacità causate dai successi o insuccessi.
La maggior parte dei cambiamenti, però, avviene durante l’infanzia, momento in cui vengono poste le fondamenta del concetto di sè e momento in cui l’individuo è più vulnerabile ai giudizi degli altri.
Il modo in cui i bambini concepiscono il sé varia in parte in relazione all’età e dipende dallo stadio di crescita intellettuale raggiunta.
Le modificazioni ontogenetiche nel concetto di sé, nei bambini, sono riassumibili nel seguente modo:
da Semplice a Differenziato. I bambini più piccoli formulano dei concetti globali mentre i più grandi elaborano distinzioni più sottili e relative alle circostanze.
Da Incoerente a Coerente: I bambini più piccoli hanno più probabilità di cambiare la valutazione di sé mentre i bambini più grandi gradiscono la stabilità del concetto di sé.
Da Concreto a Astratto: I bambini più piccoli centrano la loro attenzione su aspetti fisici, esterni e visibili mentre i bambini più grandi su aspetti psicologici non visibili e interiori.
Da Assoluto a Comparativo: I bambini piccoli si concentrano sul sé senza riferimenti agli altri, mentre i bambini più grandi descrivono se stessi in confronto con gli altri.
Dal Sé pubblico al Sé privato: i bambini piccoli non distinguono tra sentimenti privati e comportamento pubblico mentre i bambini più grandi considerano il sé privato come il vero sé.
Seguendo i primi di livelli, i bambini possono ad esempio esprimere e formulare concetti come “buono e cattivo”, “forti e deboli” e solo più tardi capiranno che ci sono delle sfumature tra gli estremi.
Per quanto concerne il passaggio dallo stadio concreto a quello astratto, è dai 7 anni in poi che i bambini, ad esempio, si riferiranno anche alle caratteristiche psicologiche come le abilità, convinzioni e inclinazioni. Questo punto sarà quello maggiormente sottoposto agli scossoni dell’adolescenza, momento in cui il sé causa molte preoccupazioni e quando le emozioni interiori e i temi sociali sono preponderanti nelle descrizioni di se stessi.
Secondo Damon e Hart (1988), i termini autodescrittivi del sé possono essere divisi in 4 categorie che comprendono caratteristiche fisiche, dinamiche, sociali e psicologiche.
Più del 50% delle risposte date dai bambini tra i 3 e i 5 anni rientra nella categoria dinamica (sono inoltre maggiori le descrizioni dal punto di vista fisico).
I termini sociali sono quelli maggiormente usati dai bambini in relazione ai rapporti con i familiari e con i coetanei (mia mamma va fuori per lavoro; sono molto popolare tra gli altri bambini).
Il cambiamento maggiore nel sé, si ha con il passaggio dal sé pubblico a quello privato, momento fondamentale a circa 8 anni quando il sé privato viene considerato il vero sé; da questo momento i maggiori (e successivi) cambiamenti nel sé, si ritroveranno nell’adolescenza fase in cui la costruzione del sé privato si snoderà lungo tutto l’arco della durata dell’adolescenza stessa, fino a giungere alla comprensione dei limiti della coscienza e del controllo di sé.
“Colui che mente a se stesso e dà ascolto alla propria menzogna arriva al punto di non saper distinguere la verità né dentro se stesso, né intorno a sé e, quindi, perde il rispetto per se stesso e per gli altri.”
In generale siamo portati a pensare che l’infanzia sia un periodo piuttosto sereno e spensierato; un periodo della vita fatto di cose semplici, caratterizzato dall’assenza di pensieri, problemi o difficoltà.
L’idea dei bambini “vivi”, leggeri e spensierati cozza fortemente con Bruno (come sempre, nome di fantasia), uno dei tanti bambini seguiti.
Il bambino triste.
Bruno arriva presso il consultorio accompagnato da sua madre; il bambino ha 9 anni. Sua madre, una trentottenne dai movimenti meccanici e rigidi, ma veloce e confusa nell’eloquio mostra il desiderio di voler comprendere perchè suo figlio, non sia mai stato un bambino allegro.
Nel racconto della storia di Bruno, sua madre (un fiume così tanto in piena che mentre parla, più volte rischia di strozzarsi con la propria saliva, oltre ad assumere un colore del viso rosso/violaceo) dice di non avere ricordi del figlio sorridente:
non ricordo di aver mai visto Bruno ridere- Dottorè- inoltre lui sta sempre male. Mal di testa, mal di pancia, stanchezza.. Per i primi due anni in cui ha frequentato la scuola, Bruno non era felice ma nemmeno troppo triste.. poi all’improvviso ha iniziato a stare sempre male. Se non va a scuola e resta a casa, si sente in colpa perchè poi non sa cosa stanno facendo in classe e deve chiamare qualcuno per avere l’assegno; se va a scuola dopo un’ora mi arriva la chiamata a casa e devo andare a riprenderlo perchè ha vomitato e sta male.
Se suo padre oppure io tardiamo un pò, che ne so, perchè siamo andati a fare la spesa (e lui resta con la nonna) ha crisi di pianto e chiede di continuo dove siamo perchè ha letteralmente paura, che siamo morti!. Quando resta in casa Bruno non fa niente.. N I E N T E! E’ stanco, dice e resta immobile seduto su una sedia a guardare il nulla; al massimo piange.
Sono qui perchè oltre a non mangiare, non dormire e a piangere, Bruno per la prima volta, l’altro giorno, ha detto di voler morire!”.
Bruno è un bambino tenerissimo; è piccolo, magrolino e con dei bellissimi lineamenti angelici. Il colore dei suoi capelli è simile a quello del miele quando osservi il barattolo mettendolo alla luce del sole ed emergono in quel liquido viscoso, mille bollicine e colorazioni differenti della stessa tonalità di base; gli occhi sono grandi, immensi e castani. Il corpo è piccolino (molto si più di un altro bambino della stessa età) ed è vestito in tuta rossa e blu.
Quello che mi colpisce di Bruno sono questi occhi così immensi da sembrare vuoti. Ricordo di quando durante una lezione di Psicologia Dinamica, la professoressa (analista infantile), raccontò del senso di impotenza, di vuoto e spaesamento che gli occhi fissi e vuoti dei bambini, hanno.
Ecco.. quel giorno mi sono scontrata con la possibilità che uno sguardo vuoto possa costruire una distruzione.
Bruno non gioca, a stento risponde alle tue domande. E’ un bambino spettro, sembra appoggiato al suo esile corpo del quale, non mostra minimo interesse. L’aspetto angelico conferisce maggior enfasi a questa immagine di un bambino e di una infanzia vuota.
Circa il 2% dei bambini soffre di disturbo depressivo maggiore. Analogamente a quanto accade nei disturbi d’ansia, i bambini piccoli non possiedono alcune delle abilità cognitive (come il senso reale del futuro) che contribuiscono a casare la depressione clinica. Accade però che in periodi particolari della propria vita (o anche in caso di forti predisposizioni biologiche), che anche bambini molto piccoli, possono manifestare disturbi dell’umore o una persistente tendenza alla tristezza. La depressione nel bambino, può essere scatenata da eventi negativi (in particolare perdite importanti) o cambiamenti (ad esempio di scuola o della casa), rifiuti (reali o percepiti come tali) o abusi (reali o fantasticati).
I sintomi possono essere i comuni sintomi fisici (mal di testa, pancia) irritabilità o disinteresse per giochi e giocattoli.
Bruno per molte sedute non troverà interessanti le marionette, starà lontano dai colori.. Non racconterà storie (a stento risponderà alle domande). Per molti martedì Bruno è stato assente mostrando inizialmente malessere per poi giungere ad un equilibrio in cui “tu non mi chiedi più niente e io non piango”.
Il patto è durato per un bel pò.
Un giorno Bruno entra aprendo la porta (è stata sempre la madre ad aprire la porta e a farlo sedere sulla sedia). All’improvviso ho come avvertito nell’aria una piccola piccola presenza di movimento.
Il bambino triste e impenetrabile aveva fatto qualcosa; aveva per un attimo abitato il suo esile corpicino.
Quel giorno Bruno mi fa una domanda personale, rispondo, e tutto torna in silenzio. Comincia a mostrare una parvenza di interesse per la marionetta a forma di lupo: colgo al balzo l’interesse e il piacere per la marionetta e comincio a prestare voce e corpo al personaggio.
Il piccolo movimento d’aria diventa d’improvviso una scintilla che squarcia il reale. Una piccola stanza umida diventa un bosco incantato con tanto di ruscelli, alberi e mele parlanti. Bruno resta un bambino “triste”, lascia fare a me molto del lavoro “di creazione”, ma comincia passo passo (un pò come pollicino al seguito dei piccoli sassolini), a seguire un percorso che è sempre lui, con il suo ritmo, a delineare.
Nei lunghi mesi in cui è venuto al consultorio, Bruno non ha mai sorriso.
Poco prima di terminare il suo percorso, il bambino, mi ha guardato negli occhi.
Bruno un giorno ha preso un pastello: il suo primo pastello, in mano, ed era del colore più felice che si possa immaginare.
Il giallo…
“come la tua gonna!”
Disse.. Accennando un timidissimo sguardo e una parvenza di sorrisino misto a vergona.
Quello resta, ancora oggi, uno degli sguardi più belli che mi sia mai stato rivolto.
Avete mai fatto attività di volontariato? Sapete che la maggior parte delle attività di volontariato, se ben centrate sulla persona che vi partecipa, possono portare grandi benefici?
Sono infatti numerose le ricerche che dimostrano che le attività di volontariato oltre ad essere utili alla società, possono anche migliorare la soddisfazione e la salute di chi dedica una parte del proprio tempo agli altri. Quindi il beneficio sarà ben distribuito, tra chi beneficia dell’aiuto e chi invece lo offre.
Secondo diverse indagini statistiche, le persone attive sul volontariato tendono ad avere un umore migliore e tendono a sentirsi meglio fisicamente, rispetto a persone che non fanno volontariato. Questo effetto è più evidente quando il volontariato diventa parte integrante della propria vita. L’impegno sociale può alleviare in parte lo stress proveniente dall’ambiente lavorativo. Infatti in alcune ricerche è emerso che le persone in età lavorativa, che svolgevano una professione a tempo pieno e insieme dedicavano una piccola parte del loro tempo al volontariato, riuscivano a distrarsi dalla routine lavorativa, si arrabbiavano di meno, erano più attenti alle esigenze dei colleghi e si prestavano più facilmente all’ascolto dell’altro.
Chi si dedica al volontariato, in genere si inserisce in un contesto sociale e in un gruppo che è composto da persone che possono avere interessi comuni; ci si relaziona molto, ci sono tanti confronti e si lavora spesso e volentieri in gruppi e squadre. L’inserimento in questi contesti può quindi dare tanti vantaggi psicologici alla persona che ne fa parte; ad esempio ci si distrae dalle preoccupazioni, perché lo stare insieme agli altri riduce il tempo che una persona può passare a rimuginare su un pensiero brutto.
Altro elemento importante riguarda il “senso di appartenenza” e la convinzione che ciò che si sta facendo è molto importante per gli altri e per la propria comunità. Immergendosi in questo contesto si hanno conferme e feedback dagli altri, quindi il proprio impegno ha un senso tangibile.
Altro vantaggio riguarda l’aspetto puramente sociale. Il volontariato permette di ampliare le proprie conoscenze, le proprie relazioni d’amicizia e il proprio bagaglio culturale. Tutto ciò stimola la fiducia nelle proprie capacità e favorisce un atteggiamento più ottimista verso la vita. Addirittura alcuni studi hanno osservato che impegnarsi nel volontariato in periodi in cui si è in cerca di un’occupazione, aveva un effetto positivo, che poteva aiutare anche nell’obiettivo finale della ricerca.
Ovviamente come in tutte le attività alcune volte capita che le aspettative sull’attività del volontariato e sul gruppo di persone che incontrano, non corrisponda alla realtà dei fatti e ciò può indurre le persone a vivere negativamente l’esperienza del volontariato. Le persone in questo caso si sentiranno deluse e frustrate. Probabilmente in questi casi quel tipo di attività di volontariato non è pienamente compatibile con la persona e con le proprie prerogative. Insomma può essere solo una scelta sbagliata.