
Anche lo psicologo ha delle regole da seguire durante la conduzione di un colloquio clinico. Queste regole non sono rigide in quanto non si presentano come uno schema che rende rigido e prestabilito un colloquio (in tal caso si tratterebbe di un’intervista clinica che può essere o meno strutturata, in base al fatto che vengano o meno usati degli item- domande, prestabilite).
Il colloquio clinico è l’incontro di due (o più) persone portatrici di un vissuto. Il paziente, colui che porta un disagio psichico più o meno forte, si affida al clinico che di converso non si presenta come una tabula rasa scevra di contenuti suoi personali: è dall’incontro di queste due individualità che nasce – all’interno di un luogo, il setting, che ha determinate e specifiche caratteristiche- l’interazione che darà vita al colloquio clinico.
Le tre regole fondamentali del colloquio sono: la regola del linguaggio, la regola della frustrazione e la regola della reciprocità. Ciascuna di queste regole ha specifici momenti di applicazione (vengono utilizzate in determinati momenti del colloquio) e si presentano come 3 voci che se sapientemente armonizzate, possono creare quell’accordo che riesce a rendere “perfetto” un colloquio.
Conosciamo insieme la prima regola: La regola del linguaggio.
Buona lettura.
In generale possiamo dire che il linguaggio che si adopera durante il colloquio, è quello del paziente. Una regola così semplice è invece spesso sottovalutata in quanto siamo facilmente portati a fare “esercizio di concetti” dimenticando che chi sta davanti a noi, non è un nostro collega ma una persona bisognosa di essere accolta e ascoltata.
La regola del linguaggio comporta che il clinico rifletta sul rapporto esistente tra linguaggio e cultura etnica, tra cultura e personalità. La persona che ci sta di fronte che lingua usa? E’ la stessa che usa anche fuori la stanza d’analisi o si sta sforzando di parlare “in un certo modo?”. Frequentemente le persona parlano in dialetto durante le loro giornate mentre spesso si dà per scontato che la lingua d’uso sia l’italiano.
Da un punto di vista psicologico questo aspetto non è assolutamente da sottovalutare. Quando una persona abituata a parlare in dialetto (qualsiasi esso sia), si sforza di parlare di se stessa, del proprio mondo interno, del proprio disagio e soprattutto della propria storia, in italiano, spesso corre il rischio di isolare le rappresentazioni dagli affetti arrivando ad una minore partecipazione emotiva con il proprio discorso e quindi con il proprio vissuto.
La persona rischia di trasformarsi in uno spettatore del proprio vissuto, piuttosto che nell’attore principale.
Ciò che andrebbe fatto è utilizzare un linguaggio di uso corrente, evitando tecnicismi e forme troppo contorte di interpretazione, centrando di volta in volta l’uso della lingua in base al paziente che abbiamo di fronte.
Il linguaggio tecnico serve infatti per poter comunicare con i nostri colleghi ma soprattutto per poter pensare. Ho sempre pensato alla formazione (sia lessicale che prettamente didattica) come a una rete di sicurezza (simile a quella dei circensi) che potesse darmi la libertà di muovermi con i pensieri, con “la fantasia” e le interpretazioni, dandomi un sostegno in caso di cedimento o caduta.
Al paziente però, del tecnicismo poco importa “Dottorè.. ditemi che tengo.. che devo fa… come mi devo comportà” questo maggiormente viene chiesto.
In generale un buon clinico dovrebbe essere capace di utilizzare e comprendere il linguaggio del paziente che, durante la riformulazione, dovrebbe essere unito e impastato al linguaggio – più tecnico- del clinico (ad esempio all’uso di metafore).
Ci sono tuttavia delle eccezioni, ad esempio in caso di pazienti tossicomani o nel caso dei delinquenti. Entrambi fanno infatti un falso uso del linguaggio ; entrambi fanno un uso del linguaggio che evita la personalizzazione e la presentazione di sè come persone; offrono in sostanza un linguaggio vuoto, falso e inesistente. Stare troppo alle loro regole, al loro gioco, significa giocarsi il paziente.
Questa era la prima delle tre regole che si usano all’interno del colloquio.
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio.
mmm molto interessante! Non immaginavo che anche per voi psicologi, ci fossero delle regole da seguire. Trovo molto bello che ci sia il bisogno di venire incontro al paziente anche aiutandolo quando ha difficoltà con la lingua. Non oso immaginare un colloquio con una persona straniera.. deve essere una bella sfida! Bell’articolo
"Mi piace"Piace a 1 persona
Ciao Giovanni, sono felice che l’articolo ti sia piaciuto. Ebbene sì.. anche noi psy abbiamo delle regole da seguire anche se, come dicevo, sono regole che vengono interiorizzate durante il percorso di training e specializzazione /studio.. pertanto in un certo senso, non ci rendiamo conto di attuarle, ma lo facciamo in modo molto automatico. Per quanto concerne il colloquio con persone straniere, hai centrato il punto. Quando si parla con persone provenienti da altre culture (con cui quindi non abbiamo in comune nè la lingua, nè tradizioni e usi culturali), è spesso ancora più difficile comprendere un non detto oppure un modo di dire. Chissà.. magari ci sarà un nuovo approfondimento, in merito, in futuro. grazie mille per il feedback. buona giornata 🙂
"Mi piace""Mi piace"
La televisione ci ha propinato sedute psicologiche quasi comiche – Verdone che ne fa di cotte e di crude insieme a tanti sventurati suoi amici – al di là di questa divagazione credo che il lavoro dello psicologo sia molto complicato e delicato. Trovare la chiave di lettura solo colloquiando, di un malessere di un disagio richiede veramente passione per la materia e tanto tanto studio.Brava
"Mi piace"Piace a 1 persona
😀 personalmente rido sempre molto quando si fa ironia sugli psicologi 😀 e Verdone in questo, insegna
"Mi piace""Mi piace"