Non serve rinnegare le nostre paure, i nostri tormenti, le nostre ansie fingendo che non esistono. Non andranno andranno via da sole. Rinnegandole resteremo in qualche modo sempre ancorati ad esse e come quel viandante non riusciremo mai a vederci chiaro, ma saremo costretti a vagare nell’oscurità, solo perché ci sembrerà troppo difficile cercare la luce.
Solo affrontando e comprendendo la nostra apprensione, avremo una possibilità di vederci chiaro.
Ok.. Stasera vorrei parlarvi di un meccanismo cognitivo del nostro cervello che si attiva per gestire la percezione di stimoli considerati “paurosi” dalla nostra mente. Cosa centra l’articolo sul tarantismo?
Provate ad immaginare di essere in una stanza chiusa e piccola. Non avete modo di uscire e la luce è fioca. Nella stessa stanza c’è una grossa tarantola viva che sgambettando (tic tic tic) si avvicina a voi furtiva e curiosa..
Chi ha paura della tarantola avrà la percezione che sia più vicina di quanto è realmente, che invece non ha paura ma prova solo disgusto e ribrezzo può addirittura considerarla più lontana.
In uno studio alla Cornell University di New York che ha coinvolto un centinaio di volontari le reazioni sono state proprio queste: chi temeva il ragno lo percepiva come più vicino di quanto era in realtà a differenza di chi non lo temeva o provava solo disgusto, che addirittura lo percepiva più distante.
Per i ricercatori si possono spiegare queste reazioni e le diverse percezioni considerando ciò che è accaduto come un “trucco percettivo” che aiuta l’organismo a prepararsi in caso di pericolo. Infatti, quando qualcosa ci minaccia e ci spaventa, una delle nostre reazioni istintive è darci alla fuga o al massimo prepararci a lottare. Quanto più la minaccia è vicina, tanto più siamo pronti all’azione. Ritenere e percepire un pericolo più vicino di quanto sia in realtà non fa altro che potenziare il nostro stato di allerta.
Nel caso di situazioni “disgustose”, non c’è bisogno di fuggire o di reagire alla minaccia, ci basta voltarci.
“Il sogno non è paragonabile a suono discordante di uno strumento musicale, percosso da un tocco estraneo anziché dalla mano del suonatore; non è privo di senso, non è assurdo, non si basa sulla premessa che una parte del nostro patrimonio rappresentativo dorme, mentre un’altra comincia a destarsi.
Il sogno è un fenomeno psichico pienamente valido e precisamente l’appagamento di un desiderio..”
Prendendo in considerazione il lavoro sull’ “Interpretazione dei Sogni” fatto da Freud, si è appreso che nei sogni infantili il lavoro onirico si propone di eliminare uno stimolo, che disturba il sonno, mediante l’appagamento di un desiderio. Ci si attendeva di vedere anche i sogni deformati allo stesso modo di quelli infantili. Tale aspettativa è stata confermata dalla scoperta che in realtà tutti i sogni lavorano con materiale infantile, impulsi psichici e meccanismi infantili.
Ma la concezione dei sogni come appagamenti di desideri ha validità anche per i sogni deformati (sostanzialmente quelli angosciosi)?
Nei sogni deformati l’appagamento del desiderio non è affatto palese, esso deve essere ancora cercato, non può essere indicato prima che il sogno sia interpretato. Secondo Freud i desideri di questi sogni deformati, sono, fondamentalmente desideri proibiti, respinti dalla censura, la loro esistenza è la causa della deformazione del sogno.
“Ho una specie di sensazione strana. So che ciò che sto leggendo è divertente, ma non mi diverte affatto”.
Un Uomo affetto da depressione.
L’anedonia è un sintomo molto comune nella depressione. Il sintomo consiste in una totale incapacità a gioire di nulla. Le persone che presentano questo sintomo sono quasi totalmente insensibili agli eventi della vita, non provano soddisfazione anche per cose molto positive, hanno “una perdita della capacità di provare piacere”.
L’anedonia può anche essere descritta come sintomo in corso della schizofrenia, nella quale ha più spesso una connotazione sociale e relazionale. Si assiste ad una totale incapacità a trarre piacere dalle relazioni interpersonali.
L’anedonia descrive quindi una particolare perdita di capacità di provare sentimenti.
“So di non provare più nulla per la mia ragazza, non so perché, mi sento piatto e apatico, quando sto con lei. Del resto, come per tutte le altre cose della mia vita, in questo momento. Ma non ho il coraggio di lasciarla, non voglio ferirla, odierebbe questo e non la prenderebbe affatto bene. “
Come è descritto in questo estratto di un colloquio, c’è però una caratteristica fondamentale dell’anedonia, che può aprire la possibilità ad una faticosa, ma buona riuscita di una psicoterapia. Infatti, le persone con anedonia descriveranno la perdita della capacità di provare sensazioni in un modo tale da fare intuire all’interlocutore, che in realtà le sensazioni e le emozioni, sono presenti (“non voglio ferirla, odierebbe questo”), ma probabilmente represse.
In una delle sue opere più emblematiche “Totem e Tabù”, Sigmund Freud, ci offre un’ analisi e un confronto molto interessante tra l’origine delle proibizioni (Tabù) nella civiltà umana e lo studio dell’origine delle Psicopatologie, in particolare le nevrosi.
Vi riporto alcuni estratti molto interessanti:
“La coincidenza prima e più evidente tra i divieti ossessivi (negli individui con nevrosi) e i tabù consiste nel fatto che questi divieti sono ugualmente immotivati e misteriosi per quanto riguarda la propria origine. Sono subentrati un qualche momento e ora, a causa di una paura irresistibile, debbono essere mantenuti. […] ogni trasgressione provocherebbe insopportabili sventure. ”
Sigmund Freud – Totem e Tabù
“La proibizione principale ed essenziale della nevrosi, come anche del tabù, è quella del contatto, da cui il nome: fobia del contatto. La proibizione si estende non solo al contatto diretto col corpo, ma abbraccia tutto l’ambito racchiuso nell’espressione figurata – entrare in contatto – . Tutto ciò che indirizza i pensieri verso il proibito, che provoca un contatto mentale, è proibito nella stessa misura in cui è vietato il diretto contatto fisico. Questa medesima estensione compare anche nel Tabù.”
Le ossessioni nei disturbi ossessivo compulsivi sono incredibilmente “dislocabili”. Tutto ciò che può essere interpretato come “potenzialmente pericoloso” sarà qualcosa di impossibile. “Alla fine l’impossibilità sequestra tutto quanto il mondo” (Freud). Le ossessioni, nei nevrotici, fanno in modo che questi si comportino come se le cose o le persone ritenute “impossibili”, fossero portatrici di un pericoloso contagio. Quindi, di conseguenza, chi avrà avuto un contatto con quel qualcosa di impossibile (che veniva considerato un tabù), allora diventerà a sua volta tabù e nessuno potrà entrare in contatto con lui.
Tra i giovani e gli adolescenti, ma anche per le altre fasce d’età, c’è una condizione psicologica decisamente prevalente in questi mesi: la noia.
In verità, la noia, è uno stato mentale ed emotivo, un sentimento, di cui tutti abbiamo avuto conoscenza e che ha da sempre coinvolto, in particolare, la fase adolescenziale. La condizione pandemica ha solo amplificato enormemente lo stato di noia nei giovani.
La noia si può definire come una condizione psicologica caratterizzata da demotivazione, sentimenti di vuoto, riluttanza al movimento e all’azione, insoddisfazione. Ha da sempre focalizzato l’interesse della psicologia e della psicoanalisi, ma come ogni condizione umana ha da sempre interessato anche la filosofia.
” La noia riposa sul nulla che serpeggia per l’esistenza, la sua vertigine è come quella che viene dal guardar giù in un infinito abisso, è infinita. Che quindi quel tal eccentrico divertimento sia costruito sulla noia, si può anche vedere dal fatto che il divertimento sia costruito sulla noia, si può anche vedere dal fatto che il divertimento risuona senza eco, proprio perché in un nulla non c’è nemmeno quel tanto che renda possibile una risonanza.”
In psicoanalisi uno degli autori che si è interessato più da vicino all’argomento è stato O. Fenichel che definiva la noia come un conflitto tra il bisogno di attività e l’inibizione della stessa, un conflitto esasperato tra i bisogni dell’Es e quelli dell’Io: “la tensione della pulsione è presente, ma lo scopo della pulsione è perduto”. Secondo Fenichel la sensazione di essere annoiati (in una situazione più vicina alla patologia) è uno stato di eccitazione il cui scopo è già represso. La persona annoiata avrà la sensazione inconscia che qualsiasi cosa faccia sarebbe inutile e inadeguata a quietare quella “tensione intima”. La repressione dei desideri conduce ad una mancanza di scopo e di significato, perché la persona non sa proprio cosa vuole fare.
Secondo Greenson (Psicoanalista), alla base della noia vi è un’inibizione della fantasia da parte dell’Io, che percepisce la fantasia come una minaccia da cui difendersi. La negazione della fantasia provoca un vissuto sgradevole, in cui vi è mancanza di tensione, mentre l’impossibilità del soddisfacimento del pulsionale potrebbe spiegare la percezione intollerabile della lentezza del tempo.
L’incapacità di sapere cosa ci potrebbe rendere felici, o semplicemente che potrebbe darci conforto e piacere, può portare a una profonda noia esistenziale, dovuta ad una diffusa mancanza di significato. La noia esistenziale può emergere anche in quelle situazioni in cui una persona rinuncia a obiettivi importanti della propria vita a causa di preoccupazioni o altri motivi. La noia inoltre comporta una mancanza di stimoli, per la persona che vive il suo ambiente. La persona annoiata pare incapace di trovare attorno a sé gli stimoli giusti. La stessa povertà di stimoli è percepita anche dentro di sé. Spesso infatti la condizione di noia, nelle situazioni più gravi, può essere sintomo di una depressione.
“Essere annoiati significa essere sconnessi dal mondo”
John D. Eastwood (Psicologo – York University Toronto)
Come evitare la noia?
Non c’è un modo univoco per combatterla e ritornare a vivere “connessi” con il mondo circostante e con gli altri. Ogni persona può avere a sua disposizione una strada diversa. In genere, la chiave per la risoluzione della noia è il cambiamento delle proprie abitudini, del proprio modo di gestire le cose, di vivere le relazioni.
Affrontare la noia significa scardinare le abitudini dannose e i pensieri negativi, incoraggiare la fantasia e alimentare il coraggio nelle decisioni importanti.
Spesso brevi percorsi psicoterapeutici sono risolutivi e aiutano decisamente molto a comprendere le “origini” del proprio sentimento di noia. Nei casi in cui non vi sono comorbilità con altre psicopatologie è decisivo intraprendere percorsi psicoterapeutici più lunghi, ma altrettanto risolutivi.
L’incontro con una persona che presenta un disturbo da attacchi di panico può suscitare nel clinico uno stato d’animo o una risposta emotiva di intensa preoccupazione visto che, chi soffre di tale disturbo tende a proiettare sul clinico stesso la propria disperazione e la propria paura/angoscia di non esser capace di uscire da questa situazione e “trovare pace”.
Il termine panico deriva, etimologicamente, da Pan, il dio ellenico dei pastori. Il dio era per metà uomo e metà capro; aveva inoltre una duplice natura (umana e divina). Si riteneva che il manifestarsi del dio e la sua possessione potessero portare alla panolessia, un’esperienza alienante tale da privare la persona stessa delle sue caratteristiche umane.
L’attacco di panico si configura come una crisi improvvisa e di breve durata. La persona sperimenta un momento di intesa paura percependo una sensazione di morte imminente; il cuore batte all’impazzata (quasi come si stesse per avere un infarto o ictus); ci si sente impazzire e contemporaneamente si avvertono manifestazioni neurovegetative (tremori, vertigini, sudorazioni).
E’ possibile parlare di disturbi di attacco di panico se essi si manifestano più volte nel corso del tempo e se avvengono in una condizione nota come “out of blue”, ovvero senza specifici fattori causali di origini ambientale o psichica.
Il profilo clinico dei pazienti (che è stato maggiormente riscontrato) comporta che questi pazienti siano maggiormente postadolescenti con prevalenza del genere maschile.
Il panico verrebbe a rappresentare una ri-emergenza marasmatica del corporeo nel fisico in mancanza di una adeguata attività psichica che possa fungere da contenimento.
Lucio ha 34 anni; contatta lo studio una mattina con la richiesta di un appuntamento rigorosamente tra le 14 e le 16 a causa di impegni lavorativi.
Lucio arriva in studio con largo anticipo; si presenta come un giovane uomo curato e dall’apparenza un po’ démodé. Il giovane ha un vestito molto classico e piuttosto “antico”, ha degli occhiali dalla montatura snella e leggera adagiati su di un viso magro e senza barba. Lucio è inoltre molto alto e dalla corporatura abbastanza esile; gira con un portadocumenti che però appare quasi vuoto.
Entrato nello studio, Lucio, appare piuttosto formale; interagisce in maniera schematica e rigida. Racconta che da qualche tempo avverte strani sintomi fisici; spesso quando è fuori casa sente il cuore battere all’improvviso e teme di stare per impazzire. La prima volta è capitato mentre stava per entrare in una galleria, è stato così male da finire in ospedale ma “il cuore stava bene”. Da lì il calvario fatto di paura, paura che possa accadere di nuovo, il tutto condito da continui controlli sul suo stato di salute.
Ciò che Lucio sostiene è che questi episodi siano accaduti anche quando “tutto andava bene”..
Alla domanda circa la chiarificazione di “questo bene”, Lucio parla della sua relazione sentimentale. La recente conoscenza iniziata con J. sembra andare bene tanto che Lucio (che ha sempre lasciato tutte le donne precedenti che erano “storie da niente”), aveva cominciato a fare progetti con J. (progetti di cui però la donna non è a conoscenza).
Dalla storia personale del giovane uomo sappiamo che la madre è morta quando lui aveva 4 anni, da quel momento Lucio ha reagito chiudendosi in se stesso; sembra infatti che il giovane non abbia mai vissuto realmente il dolore per quella perdita decidendo – negli anni a seguire- di gettarsi completamente nello studio (era il primo della classi in ogni situazione).
Studiare non mi faceva pensare.
Lucio sembra distaccato dalle cose che racconta. Una grande passione del giovane sono i viaggi “ho sempre viaggiato sia da solo che in gruppo, e le mie città preferite sono Berlino e Istanbul”. Lucio parla della divisione di Berlino, della perfezione tedesca, del clima freddo poi parla della calda Istanbul, dei treni che partono ad orari approssimativi, della gente calorosa e accogliente.
Solo quando Lucio parla dei viaggi mostra una gioia e una fiammella negli occhi. Ciò che colpisce di questo giovane uomo così tanto fuori epoca, è proprio il suo narrare con una certa meccanicità la vita che gli passa addosso quasi come non fosse la sua; Lucio non vive gli eventi e le emozioni ma le mentalizza come input/ output di cui lui è solo un sistema di controllo che gestisce le informazioni in entrata e uscita; informazioni di cui non ha particolare cura.
Ripenso alle città che Lucio ha visitato e penso che forse, da qualche parte in lui deve esserci una piccola Istanbul, una zona felice e poco rigida dove le regole non sono fredde e “da rispettare”, dove la vita chiama, vibra e chiede.. chiede soprattutto di essere sentita e vissuta, percepita e attraversata da primo attore e non da automa…
Anche se questo implica, talvolta, provare il dolore e la possibilità di una perdita…
Probabilmente tutti l’hanno sperimentata, molti hanno trovato poi un modo per evitare quella sensazione negativa, altri invece non riescono a trovare il modo per evitare lo stimolo doloroso che l’accompagna. Lo stato della mente che sto descrivendo riguarda l’incapacità di reagire davanti ad uno stimolo “psicologicamente doloroso e spiacevole”. Incapacità che anche l’impossibilità di evitarlo e di reagire per cambiare le cose.
La sensazione che si prova è molto simile ad una forma estrema di rassegnazione al dolore sia fisico che psicologico.
Questo fenomeno, chiamato “impotenza appresa“, è stato studiato da uno psicologo statunitense Martin Seligman. Praticamente Seligman spiega che una persona per “abbandonarsi” all’impotenza appresa deve aver appreso, dalla propria personale esperienza che “è inutile provare a modificare il proprio atteggiamento e il proprio comportamento, tanto non c’è più nulla da fare”. Pare che chi si lasci andare a questa idea, abbia la quasi totale certezza (spesso e volentieri falsa) che non può controllare ciò che gli sta facendo del male, così si accetta passivamente tutto. Questo stato mentale caratterizza anche alcuni disturbi psicologici (ad esempio la depressione).
L’impotenza appresa descrive quindi lo stato mentale di una persona che considera inevitabili gli esiti delle proprie azioni in una situazione di estremo stress.
Le esperienze che caratterizzano la nostra vita, possono in qualche modo condizionare e modificare il nostro comportamento e le nostre risposte istintive. L’apprendimento negativo spiega anche perché possiamo accettare a volte in maniera passiva, situazioni molto brutte senza cercare una via d’uscita, che però in realtà esiste e che gli altri riescono a vedere.
Il carico eccessivo di aspettative negative hanno anche altre conseguenze. Portano infatti a scarsa stima di sé, tristezza, sintomi psicosomatici, stress e fallimenti reiterati.
La teoria dell’impotenza appresa, ha in parte spiegato e chiarito alcuni aspetti di patologie e fenomeni psicologici, emotivi e relazionali, che vanno dalla depressione, passando per le vittime di violenze e stalking fino alla dipendenza da droghe e alcol.
Ci sono ovviamente alcune variabili rispetto al fenomeno dell’impotenza appresa; per alcuni infatti, questo atteggiamento passivo interessa solo lo stimolo negativo che è all’origine, mentre per altri può estendersi a tanti aspetti della propria vita. Ciò si può spiegare con il fatto che alcune persone sono in grado di affrontare lo stress dello stimolo negativo e quindi riescono a confinare la sensazione d’impotenza alla situazione specifica, mentre gli altri non riescono ad avere questo controllo e si fanno sopraffare totalmente. Probabilmente questa differenza è dovuta a “mancati apprendimenti” che possono diventare inibizioni a un successivo sviluppo. Questo può succedere, ad esempio, in contesti familiari che hanno in qualche modo inibito lo sviluppo dell’autostima e dell’indipendenza del bambino, favorendo invece un senso di dipendenza e inadeguatezza.
Un’altra spiegazione potrebbe essere nell’individuazione di due tipi personologici opposti:
Coloro che rientrano nel gruppo dei “negativi” che vedono gli effetti di una situazione difficile come permanenti, pervasivi e dipendenti da una “colpa” loro;
Coloro che rientrano invece nel gruppo dei “positivi” che distinguono se stessi dalla causa esterna. Quindi riescono anche a percepire una possibilità di fronteggiarla.
Immagine Personale – Una via d’uscita
Gli stessi meccanismi possono essere anche alla base dello scarso successo scolastico di alcuni bambini, che frustrati da una serie di giudizi negativi all’inizio del loro percorso scolastico possono generalizzare erroneamente l’esito delle loro performance scolastiche e iniziare ad alimentare una escalation di risultati negativi che possono portare ad un fallimento negli studi.
Nonostante la forte resistenza di questo stato mentale nelle persone e la percezione persistente all’impossibilità del cambiamento, è possibile cambiare e riprendere a vivere una vita libera da “impedimenti”. La psicoterapia può certamente essere la soluzione e la svolta, ma il percorso terapeutico deve essere accompagnato da una forte motivazione da parte del paziente.