Il disturbo bipolare (chiamato in passato sindrome maniaco depressiva o depressione bipolare), è un disturbo dell’umore caratterizzato da anomali cambiamenti dell’umore, dell’energia e del livello di attività svolta nell’arco della giornata. Chi presenta questo disturbo manifesta, in modo alternato, episodi di eccitamento seguiti da episodi depressivi.
Il disturbo bipolare si caratterizza per la presenza di profondi e prolungati periodi di depressione alternati da periodi di umore eccessivamente elevato o irritabile chiamato mania. Tendenzialmente le fasi depressive hanno una durata maggiore, mentre le fasi maniacali o ipomaniacali durano meno (da una settimana a poco più di un mese). Il passaggio tra queste due fasi può essere relativamente lungo, consentendo al paziente un periodo di benessere.
Mi abbandono spesso alla riflessione quando assisto una coppia che varca la porta dello studio.
Una coppia che chiede un incontro di consultazione è, nell’hic et nunc, una non coppia. Si tratta di due individui che hanno smesso (o molto probabilmente non lo hanno mai fatto), di comunicare.
Il supporto di quella che viene comunemente definita coppia “in crisi”, presenta punti di complessità notevoli, cominciando dal fatto che di fronte non abbiamo due individui (la diade in crisi), ma almeno sei persone (un membro della coppia insieme all’introiezione delle sue figure genitoriali, assumendo che l’Edipo sia stato risolto, il secondo membro e i fantasmi della sua coppia genitoriale) ma a ben vedere, nel lungo e complesso intreccio del copione familiare, anche i fantasmi genitoriali sono portatori dei rispettivi fantasmi e così andando a ritroso nel lignaggio di provenienza (e questo per entrambi i membri della diade).
La terapia di coppia è di fatto la terapia di una folla di persone.
Tutte le voci chiamate in causa, sono ovviamente presenti nella loro assenza; portiamo in sostanza tracce della nostra storia familiare nel nostro comportamento, in tutto quel che siamo -certo- ma soprattutto in ciò che decidiamo di non essere.
Possiamo decidere, ad esempio, di prender coscienza della relazione dei nostri genitori e fare in modo che la relazione con il nostro rispettivo partner sia distante da quella cui abbiamo assistito; si tratta di punti di rottura della nostra storia familiare.
Immaginiamo a tal proposito una tipica storia raccontata, in cui ci sono i protagonisti, antagonisti e così via…
Immaginiamo che, ad esempio, cenerentola si annoi di pulire e canticchiare come una schiava, attendendo che il principe le rimetta la scarpetta e decida di partire per un viaggio in solitaria lungo la costa ovest americana, dandosi alla promiscuità.
Discutibile?
E chi siamo noi per giudicare cenerentola?
L’esempio che ho fatto, seppur possa sembrare fuori luogo e lontano dall’esperienza che vivo, è invece piuttosto centrato.
Molte coppie dimenticano di avere potere decisionale sulla propria storia; accade non di rado che appena sposati, i coniugi si immettano in un sistema che lavora a ciclo continuo, senza sosta, un ciclo che li vuole anello di una catena che può andare solo in un certo modo: lavoro, figli, incontri con la scuola, medico, bollette, genitori anziani, lavoro e ancora lavoro.
Si diventa lentamente spettri della propria stessa esistenza, sedie vuote su cui sono adagiati corpi sempre più lontani dalla nostra stessa essenza.
Ci sono coppie che restano insieme senza più dirsi mezza parola; si condivide il letto ma ognuno girato dal proprio lato che diventa sempre più freddo e distante dal lato che resta dietro le proprie spalle.
Ci sono quelli che sacrificano la sfera dell’intimità, relegandovi un piccolissimo e veloce spazio, senza passione né sentimento. Non ci si confessa né si parla dei rispettivi bisogni e desideri e si lascia che le cose continuino a fluire. L’intimità resta la sfera maggiormente colpita dalla crisi perché è sempre più diffusa l’idea che la coppia si fondi su altri principi (il che è giusto), ma è pur vero che ciò che indica e identifica una coppia come tale, è proprio la condivisione della sfera intima.
Non credo si condivida l’intimità della propria sessualità con chiunque.
Ci sono coppie stanche, così tanto stanche che neanche riescono a confessarsi di essere giunte al punto di rottura.
Quelle che stanno insieme per il bene dei figli (quale sia poi questo bene è tutto da capire).
Ci sono quelle coppie che si odiano profondamente che vedi lì.. sembra quasi vedere il veleno scorrere da ogni poro, tanto è il fastidio che provano nel respirarsi accanto. Però… restano insieme.
Ci sono poi le coppie che stanno bene insieme, quelle “erano sereni.. felici.. normali..” poi accade che uno dei due uccide il partner.
La coppia è un sistema in continua costruzione e in divenire, essendo composta da due persone che non sono statiche ma soggette alle leggi del tempo e dell’esistenza, è impensabile impuntarsi sul “prima era diverso” poiché prima è adesso.
La schismogenesi della coppia, la distruzione del microsistema coppia, ha una portata tale da inviare talee distruttive anche ai sistemi esterni alla coppia stessa (figli che soffrono, parenti che intrudono nelle dinamiche dei due probabili ex, e così via).
Ho spesso la sensazione di avere di fonte due sedie vuote, le persone parlano parlano di contenuti così vuoti da rendersi lentamente sempre più evanescenti, fino a diventare sfondo al pari degli oggetti che ci sono dietro di loro.
Mi piace alternare le sedute di coppia a quelle dei singoli membri ed è bello fare il gioco delle parti, farli sedere alternativamente sulla sedie vuota che vedono innanzi a loro per essere alternativamente se stessi e l’altro, al fine di vedere e capire cosa, come avrebbero agito e/o risposto nella medesima situazione il rispettivo partner.
La coppia è una folla vero, che dimentica con troppa facilità che la storia è “nostra” e di nessun altro; che i copioni sono stati scritti, è vero, ma la parte principale la fa sempre l’attore specifico che sa aggiungere (e aggiunge) sfumature tutte sue, peculiari.
La coppia è una folla che deve ritrovare, nella sincerità della solitudine duale, il coraggio.
Coraggio per proseguire nella stesura del copione o coraggio per dirsi arrivederci, la storia fin qui è stata entusiasmante ma sento che, come cenerentola, devo prenotare un aereo perché voglio fare un viaggio sulla costa ovest americana.
In questa tappa del nostro viaggio seguiremo un sentiero più esterno, un po’ ripido, ma sarà in discesa. Vi porterò sul sentiero del ciclo della vita e osserveremo più da vicino una fase della vita importantissima, molto preziosa e davvero molto interessante: l’anzianità.
Scopriremo quanto è importante il benessere psicologico di una persona in questa fase della vita e quanto può influire positivamente sulle famiglie e sulla società.
Buon Ascolto..
Psicologia del ciclo di vita – l’Anzianità – In Viaggio con la Psicologia – Spreaker podcast
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Gli psicologi sociali hanno dimostrato che circa il 30-40% delle conversazioni umane ha come scopo quello di condividere informazioni su di sé e condividere esperienze vissute personalmente.
Una banalità? Non è detto..
Nello specifico, nel 2010,Naaman, Boase, & Lai, hanno condotto studi sulla piattaforme Facebook e Twitter, mostrando come l’80% degli stati, quando aggiornati, mostravano un contenuto legato ad esperienze personali appena vissute.
Si tratta del fenomeno noto come self-disclosure (auto-svelamento o apertura verso gli altri); tale condivisione (tipica della nostra specie) è dovuta alla potente gratificazione personale esperita ogni volta che avviene la condivisione con l’altro. In altre parole raccontiamo volentieri qualcosa di noi perché questo, in qualche modo, ci soddisfa (Tamir & Mitchell, 2012).
In studi di neuroimaging condotti nei decenni precedenti, era stata dimostrata l’attivazione dei circuiti cerebrali connessi a questo senso di gratificazione.
Tamir e Mitchell, del dipartimento di psicologia di Harvard, hanno portato avanti studi combinando tecniche di neuroimaging e metodi comportamentali, al fine di testare l’ipotesi che le stesse aree cerebrali componenti il circuito della gratificazione fossero coinvolte anche nel processo di self-disclosure.
Tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI) è stata analizzata l’attività cerebrale dei partecipanti; lo studio è stato diviso in due fasi. In una prima fase è stato chiesto ai soggetti di rivelare le proprie opinioni e i propri pensieri agli altri, mentre nella seconda fase è stato chiesto ai soggetti di speculare su ipotetiche opinioni o pensieri di un’altra persona. Senza scendere troppo nei dettagli neurocognitivi dello studio, il risultato più interessante concerne il fatto che il solo pensare introspettivamente a se stessi, era sufficiente a far provare ai soggetti un senso di gratificazione così forte da attivare il sistema mesolimbico dopaminergico (dopamina). Ciò però che potenziava questa attivazione, era il condividere con gli altri i propri pensieri e le proprie esperienze.
La condivisione rafforza i legami sociali (Dindia,2000; Collins & Miller, 1994), accresce le nostre conoscenze sul mondo ed elicita il feedback degli altri, permettendo alla persona chiamata in causa di vedere o conoscere meglio anche altre parti di se stesso che magari, senza quella condivisione, sarebbero rimaste coperte.
(E la condivisione è così forte e potente che se ogni promessa è debito, come dice l’antico detto, personalmente ho un debito che sa di promessa. Sia mai che “girasole” trovi la sua luce; nel frattempo scopro qualcosa di me attraverso le parole prestate. Grazie).
Un paio di anni fa mi trovavo nella mia amata Catalogna (a Tarragona per intenderci).
Quell’estate segnava la fine, quindi l’intrinseco inizio, di un ciclo complesso e difficile.
Duro.
In qualche modo le mie risorse interne, accompagnate da poche ma solidissime risorse esterne, avevano fatto in modo che resistessi -ancora una volta- ai temporali.
Quell’anno lì l’acqua era davvero ovunque, nemmeno il tempo di alzare la testa per prender fiato che -sbam- nuova onda e lì.. giù … ma non troppo… come nemmeno troppo su.
Oscillazione continua e costante, pendolo dell’esistenza come da Schopenhaueriana memoria.
Tarragona è stata una parentesi felice e serena.
Abitare e vivere i posti sono stati dell’esistenza molto diversi; si può vivere in un luogo abitandone un altro (analogamente a quanto accade con la nostra psiche).
Posso vivere un corpo che non abito o abitare in una pelle che non vive il mio corpo.
Insomma…
La Spagna contiene il mio essere, si situa come un luogo capace di farmi vivere e abitare allo stesso tempo.
Un giorno, in un negozio, ho visto degli occhiali certo vagamente trash, forse eccessivi… ma quella lente azzurra ha attirato la mia attenzione.
Quando li ho visti sullo scaffale ho pensato alla felicità “questi sono gli occhiali della felicità”, c’era – in sostanza- qualcosa fuori da me, che mi indicava un bisogno -forse un desiderio- (ma siccome desiderio e bisogno non coincideranno mai, così come la psicologia dinamica ricorda), non sono stata lì troppo a pensare e li ho indossati.
Gli occhi chiari sono un bellissimo salto nella luce che acceca e fa lacrimare (molti hanno difficoltà a guardare negli occhi chiari perché -come un paziente mi disse- sono come uno specchio) e sono di difficile “manutenzione”.
Sono occhi che soffrono facilmente, si irritano quando meno te lo aspetti; banalmente portati a pensare che siano occhi freddi, si tratta di occhi che piangono o lacrimano al primo raggio che arriva senza preavviso; polvere e vari agenti atmosferici intrudono sempre con un’aggressività costantemente fuori controllo.
Il problema è che io non sopporto gli occhiali da sole; odio schermare i miei specchi sul mondo, non sopporto di dover alterare il colore delle cose e non mi piace mettere barriere.
La lente azzurra è diventata, allora, uno velo sottile e trasparente (luminoso e protettivo) che mi ricorda che ogni tanto anche io devo proteggermi (magari anche in maniera trash) inoltre… vedere il mondo blandamente azzurro aiuta… quando il nero si ripresenta.
Nel corso di un supporto psicologico può accadere che il bambino, l’adolescente o il giovane adulto, possa vivere una difficoltà nel verbalizzare un certo tipo di contenuti.
Potrebbe accadere, infatti, che innanzi a traumi incistati profondamente nell’apparato psichico sguarnito di idonee modalità difensive atte alla comprensione e allo scioglimento del trauma stesso, si possa ricorrere all’ausilio di strumenti “esterni”.
Cosa intendo dire con ciò?
E’ possibile, durante la conduzione dei colloqui, utilizzare strumenti come marionette.
La terapia con le marionette si fonda sui principi della psicologia dello sviluppo di C.G. Jung, tuttavia mentre in Jung i conflitti vengono recitati e analizzati verbalmente, la terapia con le marionette si incentra sul gioco con le marionette ed altri strumenti quali l’uso del disegno o altre forme creative (scrivere una canzone), oppure altre forme verbali (racconto di una storia).
Utilizzare piccoli oggetti facilmente manipolabili (ad esempio marionette da muovere a mano), consente una sorta di manipolazione “esterna” di un contenuto intrapsichico “interno” portandolo all’interno di una dinamica duale (psicologo/paziente), rendendo visibile lo scambio intra e interpsichico all’interno della dinamica transferale.
I bambini o gli adolescenti che manipolano oggetti, sperimentano un senso di controllo e padronanza che li aiuta a riconoscere (quindi a dare un nome) all’emozione provata. Attraverso il meccanismo della proiezione, il bambino riesce a proiettare sulla/nella figura scelta tutti quei contenuti psichici difficili da verbalizzare (la marionetta può o meno avere una certa strutturazione rigida, nel senso che può indicare già di per sé sesso, etnia e ruolo sociale ad esempio la principessa, oppure può essere il corrispettivo di una tela bianca su cui il bambino adagerà il proprio mondo interno).
E’ preferibile avere un vasto numero di oggetti tra cui scegliere (all’incirca una ventina), che siano semplici da manipolare e che ben si prestino alla rappresentazione sia dei sentimenti che del mondo interno (non è necessario avere una principessa e un principe, per fare un esempio, ma è preferibile avere marionette con caratteristiche femminili, maschili, che vi siano animali) ed è importante che le marionette non diano già un’idea fissa su cosa dire, ma è molto importante che siano solo dei tramiti (ad esempio avere una marionetta che sia chiaramente cenerentola, porterà inevitabilmente il bambino a parlare di cenerentola stessa).
Tendenzialmente i bambini si approcciano all’uso delle marionette con curiosità e anche quelli meno propensi alla verbalizzazione oppure quelli che mostrano elementi di iperattività, riescono per un certo momento della seduta, a dare interesse ai pupazzetti.
Le storie che emergono durante l’uso delle marionette sono spesso affascinanti e al contempo terribili; ci sono bambini che mostrano un blocco dell’attività creativa (e questo succede con sempre maggiore frequenza, in quanto molti dei nostri bambini sono bambini App, risultato della costante presenza dei social media, nella nostra esistenza).
Ci sono bambini delusi dal mondo, sia esso il mondo degli adulti oppure il mondo personale, quello in cui non si riconoscono.
Ci sono bambini che si guardano allo specchio e non si riconoscono; si tratta di tutti quei piccoli pazienti che presentano precocemente dubbi e incertezze sulla propria identità (perché sì, per chi si ferma ad ascoltare certi dubbi sono precocemente visibili).
Ci sono bambine, piccole principesse che hanno conosciuto precocemente l’orco o piccoli principi che hanno conosciuto la matrigna cattiva che li ha derubati della loro infantile dolcezza.
Ci sono bambini che non sono né principi né principesse; vittime di un sistema che li ha voluti solo tasselli di una scacchiera che fa buchi da tutte le parti e allora vengono gettati nel terribile mare delle case famiglie, delle famiglie affidatarie.. dei tutori…
Ci sono adolescenti completamente spaesati, boe in mezzo al mare che a fatica galleggiano e segnalano la propria presenza, nello spazio.
Ci sono giovani adulti interrotti e fermi giusto lì… sul confine (border) della psicopatologia che non li fa né nevrotici né francamente psicotici e allora….
Chi sono io?
Accade allora che durante una seduta D. giovane stanco di lottare, decide di staccare la testa alla principessa.
Proietta sulla marionetta il proprio dissenso verso la perfezione di un canone inesistente che lui non avrà mai; è con un morso che la testa viene recisa analogamente al taglio netto e secco che lui aspetta venga fatto, a quel genitale che non gli appartiene.