Attraverso la storia di una donna, andiamo alla scoperta del Disturbo Istrionico di personalità.
Le persone con disturbo istrionico di personalità (un tempo disturbo isterico di personalità), sono estremamente emotive (emotivamente cariche) e cercano di continuo di essere al centro dell’attenzione (APA, 2000)…
“La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme.”
Donald Winnicott
La Psicoterapia è un gioco di relazioni, di parole, di emozioni. Un gioco molto serio.
“Dottoressa questa cosa che mi chiedi -come stai?- mi fa sempre un certo effetto; mi fa effetto perché ho capito che non me lo chiedi per dovere ma per sincero interesse e questa cosa, mi manda sempre un po’ in tilt. Come sto… Hm.. mm.. Sono stanco. Mi sento triste e svuotato. Riesco a lavorare e fare ancora più o meno quello che facevo prima ma ho sempre come un peso sottile che sa farsi pesante, pesantissimo senza alcun preavviso. Mi capita ultimamente, anche se sono uomo, di piangere all’improvviso. Ho detto “uomo” semplicemente perché a casa o gli amici, non capiscono che anche se sono maschio, ho il diritto di potermi sentire triste, svuotato, solo.
Ho anche io il diritto di piangere”.
(…)
“E’ faticoso Dottoressa. E’ faticoso per me dire da dove vengo, raccontare la mia storia, e sentire quegli sguardi ostili, cattivi oppure percepire la paura negli occhi degli altri. Quanto ci definisce la nostra storia? Quanto conta il nostro nome? Certe volte sento dire che un nome è solo quello… Un nome.. ma ne siamo proprio sicuri? E se questo nome viene sempre prima di te, tu come fai? So stanco Dottorè… Per quanto tempo ancora dovrò continuare a giustificare le mie azioni, i miei pensieri, i miei desideri e i miei bisogni?”
(…)
“Dottoressa… niente… Volevo darti una piccola cosa, è una sciocchezza veramente… ma è un piccolo dono di cuore per quello che insieme agli altri Dottori, gratuitamente fate per noi qui. Prima che me ne vado la posso mettere una canzone? Però dai.. non mi devi sfottere!”
E questo è il “dono di cuore” che a mia volta, ho diviso in due parti identiche. Ho diviso il dono, facendone un altro piccolo dono, a mia volta, perché c’è sempre tempo per stare incazzati, arrabbiati, nervosi; è sempre tempo per essere ostili e incattiviti.. imbruttiti.
Ma il tempo per dire “grazie” è sempre (troppo) poco.
Certi incontri distruggono, fanno male e prendono; certi altri -anche se per poco tempo- riempiono così tanto da renderti “obeso”: di cose belle, novità, interessi. Diventi obeso di te stesso, arrivando a conoscere aspetti di te che nemmeno lontanamente potevi immaginare.
“Comunque L. chi sfotte le emozioni degli altri, qualche problemino lo ha, eccome.”
“Dottorè ma non possono essere tutti un po’ psicologi?”
“Uè… Io devo lavorare, sa!”
(PS. Il pezzo, mi piace da sempre ma questo L. non lo sa.)
Certo la strada che conduce alla fine della relazione terapeutica, con il paziente, vede l’uso di una frase meno fredda di quella dell’incipit, ma il senso è quello.
Proviamo a procedere -per quanto possibile- con ordine.
Quando una persona prende coscienza di avere un disagio psicologico, decide di contattare un esperto del ramo psy (psicologo, psicoterapeuta,psicoanalista).
Si comincia con la presa di coscienza (più o meno consapevole, diciamo così), di questo disagio e si parte con un percorso che (nella mente del paziente) si spera essere il più veloce possibile, e che porti alla scomparsa del disagio psichico (il sintomo, ad esempio, gli attacchi di panico).
Ma cosa si intende quando si dice che una psicoterapia o un supporto psicologico, debbano essere risolutivi?
Il termine “risolutivo” -attenzione- va tarato sulla persona in questione (accade ,infatti, che la risoluzione o la scomparsa del famoso sintomo, non siano quelli per cui la persona ha chiesto il nostro aiuto). Intendo dire, con ciò, che si inizia di solito un percorso con una specifica domanda ma non ci si incista, barricandosi, sul/nel sintomo portato; si scava -invece- intorno a questo procedendo in un movimento temporale che ci colloca in un movimento ondoso che ci porta avanti, indietro, a sostare su un preciso scoglio per un po’ oppure ci fa tenere l’acqua alla gola.. e così via.
Il percorso psicologico non sarà mai lineare; non possiamo prevedere la durata di un dato percorso in maniera certa e lineare: la psiche, l’inconscio, non andranno mai da A a B in maniera diretta ma per giungere dalla prima alla seconda destinazione seguiranno percorsi frantumati, a zig zag, ci saranno salti enormi, vuoti d’aria, stasi accelerazioni o stop improvvisi.
Può accadere che il paziente decida di interrompere d’improvviso la terapia; il terapeuta ha quindi in questo caso il compito di interpretare tale richiesta e di aiutare il paziente stesso a comprendere tale richiesta. Se il paziente insiste il terapeuta pone fine al rapporto terapeutico. Altra condizione fondamentale è evitare di creare dipendenze lunghe, eterne con il proprio paziente.
Può accadere che alcuni terapeuti vivano la difficoltà nel concludere le terapie; questo può avvenire nel caso in cui il terapeuta non abbia completamente risolto alcuni problemi legati al suo vissuto e ricerchi, in questo rapporto in cui si pone come soggetto dominante, delle gratificazioni narcisistiche.
Quando le terapie procedono bene fino a giungere alla fine del loro percorso: cosa succede?
Il paziente giunto da noi per alleviare un determinato sintomo, sta meglio. Il sintomo scompare, si allevia, la persona ha acquisito delle capacità con cui sa fronteggiare un determinato disagio e da quel campanello d’allarme iniziale (ad esempio l’attacco di panico), da sapiente archeologo (come da metafora Freudiana, circa la figura dell’analista), è riuscito, insieme al terapeuta stesso, a scavare intorno e nel suo disagio: il sintomo consente di portare alla luce un realtà sotterranea che era esclusa dalla coscienza.
Il paziente conosce ora le sue risorse: sa di averle.
Cosa accade, ora?
La terapia si conclude positivamente quando paziente e terapeuta scelgono di comune accordo che è arrivato il momento giusto, quello del distacco. Di solito qualche seduta prima si fa il punto della situazione e si prende atto della data “della fine”.
Abbiamo innanzi un momento molto forte e carico di significato. La conclusione della terapia si configura come una separazione non traumatica, investita di senso ed empatia.
Questo momento ha un alto valore simbolico poiché rappresenta un modo per prendere le distanze con la figura di riferimento (assimilata al genitore) acquisendo la propria autonomia e indipendenza. La conclusione della terapia non è una lacerazione improvvisa ma un trampolino di lancio verso la vita.
Durante l’ultima seduta il terapeuta offre la restituzione, una interpretazione conclusiva del/al paziente. Di solito si usa una metafora potente, breve e incisiva; una metafora che usa un linguaggio specifico della coppia terapeutica che si è creata in quel luogo; qualcosa che sia “tarato” sulla persona stessa che solo terapeuta e paziente possono capire e ricondurre a quel percorso che insieme, hanno portato avanti.
E’ un momento bello, commovente.
Forte.
Il terapeuta inoltre non si nega all’altro, ma offre al paziente la possibilità di essere lì, offrendosi come un porto in cui ritornare qualora la tempesta torni alle porte e sia troppo distruttiva.
I risultati, per così dire, si vedranno dopo, nel momento in cui il paziente interiorizza il terapeuta e mette in pratica quelle modalità diverse, più adattive, funzionali ed evolute (che il professionista gli ha trasmesso, durante il percorso condiviso) per prendersi cura di sé.
Non esistono percorsi facili.
Non esistono percorsi impossibili.
Ogni strada è la propria strada e non tutte le strade devono necessariamente partire da A per finire verso B.
Secondo l’Agenzia Italiana del Farmaco, 3 milioni di persone soffrono di depressione e nel corso del 2020 circa il 6,5% degli italiani ha affidato il proprio benessere psicologico ai farmaci: gli antidepressivi. Si è inoltre registrato un aumento del 6,6% di farmaci ipnotici e ansiolitici (benzodiazepine) successivamente alla depressione da Covid-19.
Dal 1992 il 10 Ottobre è la giornata dedicata alla sensibilizzazione della salute mentale.
Dati alla mano (dati Ipsos) il 58% delle donne italiane ammette di dedicarsi al proprio benessere psicologico mentre gli uomini sono il 48%; il 61% dei giovani sotto i 35 anni sostiene di aver almeno una volta pensato di dover fare qualcosa per la propria salute mentale mentre tra gli over 59 la percentuale è del 42%.
I pregiudizi legati a certe figure professionali e gli stereotipi legati alla salute mentale, vanno abbattuti.
Non parlare di qualcosa può essere un atto volontario o dovuto ad altre cause mediche psicologiche.
La – tua- salute mentale è importante perché tu sei importante.
Fatti ascoltare per ascoltarti.
“Le nostre indagini psicoanalitiche degli individui ci hanno convinto che la linea di demarcazione tra salute e malattia mentale non può essere tracciata così nettamente come si pensava in passato. Specialmente per quanto riguarda le nevrosi, nuclei nevrotici si trovano nella psiche degli individui normali tanto regolarmente quanto fanno parte della struttura di ogni nevrotico aree ampie di funzionamento normale. Inoltre, gli individui nel corso della vita valicano più volte, in un senso e nell’altro, il confine tra salute e malattia mentale” Anna Freud, L’adolescenza come disturbo evolutivo, 1966.