Eccoci qui.. siamo entrati in quel periodo dell’anno in cui l’ossessione per il corpo e la sua (presunta) buona forma, raggiunge picchi estremi. La prova costume, come tutti amano definirla, sta diventando un qualcosa di così invadente tanto da diventare quasi una nuova epidemia tra i giovani e meno giovani. Perché giudichiamo costantemente il corpo dell’altro? Cosa ci spinge a dire che un corpo è più meritevole di un altro? Cosa ci dice la psicologia, in merito?
L’Impotenza Appresa è lo stato della mente che ha a che fare con l’incapacità di reagire davanti ad uno stimolo “psicologicamente doloroso e spiacevole”.
Incapacità che sta anche nell’impossibilità di evitarlo e di reagire per cambiare le cose.
L’impotenza appresa è una condizione psicologica che caratterizza anche psicopatologie, tra le quali la depressione.
“Noi crediamo di conoscerci, eppure, ad onta, dei nostri sforzi, non ci conosciamo affatto; crediamo di conoscere i nostri simili, eppure non li conosciamo, perché noi non siamo un oggetto, e neppure i nostri simili lo sono. Più penetriamo nel nostro intimo, o nell’intimo di un altro essere più la meta ci sfugge. “
Qualche tempo fa, durante un primo colloquio con un giovane di circa 20 anni, fui quasi spiazzato dalla sua richiesta, che era molto dissimile dalle richieste d’aiuto e d’intervento che di solito accogliamo.
Il ragazzo, sin dalla prima telefonata per la richiesta dell’appuntamento, non palesava nessun problema evidente. Generalmente è il contrario. La maggior parte delle persone tende, anche brevemente, a raccontare il presunto sintomo o problema.
Il ragazzo in questione invece fu molto spiccio.
Il giorno dell’appuntamento si presentò sorridente e apparentemente impaziente.
Si guardò intorno.. e sospirò. Poi accogliendo il mio invito ad accomodarsi sulla sedia disse:
“Lo sa?”
“Cosa?”
“Aspettavo da tanto questo momento. Non sono mai stato da uno Psicologo o da uno Psicoterapeuta. E non mi aspettavo fosse così..”
“Vedo che non sei affatto ansioso, sembri quasi impaziente.. (dico sorridendo) cosa ti aspettavi?”
“Non so.. un lettino, un ambiente scuro, poltrone in pelle, quadri strani, una scrivania gigante di legno, quelle col vetro sopra..”
“Non sembri deluso”
“No, infatti. Sono contento sia così.. in fondo dentro di me sapevo che era solo ciò che immaginavo, ma in realtà speravo di trovare qualcosa di diverso.”
“Meno male, non devo cambiare lo studio (rido)”
Ridendo aggiunge: “Immagino vuole sapere perché ho chiesto un appuntamento”
“Sono molto curioso..”
“Al momento non ho nessun problema in particolare. Diciamo che di problemi ne ho avuti, forse anche tanti, ma in passato. Adesso sento invece il bisogno di approfondire la mia conoscenza. Voglio sapere più di me stesso. Vorrei che lei mi aiutasse a capire come sono, perché sono io e se posso migliorarmi”
Quello fu l’inizio di un percorso di psicoterapia molto bello e affascinante.
Quella relazione psicoterapeutica coglieva il senso più intimo e primitivo della meta e dell’obiettivo di una psicoterapia.
Esplorare l’umano non è così facile come sembra.
Lo Psicologo e lo Psicoterapeuta, in tal senso, sono “guide esperte” e “addestrate”, consapevoli dei rischi e dei pericoli spesso invisibili o addirittura ignorati da chi si propone e si “atteggia” a mentore e improbabile “esperto di cose”.
Molto probabilmente tutti abbiamo fatto un gioco semplice e rilassante: scrivere con il dito su di un vetro appannato.
Quando il vetro si appanna (volontariamente soffiando il nostro caldo e umido respiro sulla superficie), oppure a causa del contatto tra caldo e freddo di due ambienti, il vetro/specchio si appanna e noi cominciamo a scrivere/disegnare su di esso.
L’azione dello scrivere qualcosa che poi, dopo poco va via, mi ha riportata al gioco del nipotino di Freud.
Un attento Freud, aveva notato uno strano gioco che il nipotino faceva in assenza di sua madre.
Il bambino ha 18 mesi e pronuncia alcune parole che hanno un senso, almeno per coloro che si prendono cura di lui: “Fort/Da”; l’attenzione di Freud va quindi su un’azione che il piccolino compie nel mentre esprime questi fonemi; un’azione giocosa che il bambino ripete in modo relativamente invariabile, azione a cui associa l’emissione proprio dei due fonemi ben distinti.
Il bambino sta giocando con un rocchetto (un piccolo telaio di legno a cui avvolgere dei fili di tessuti); il rocchetto viene lanciato dal bimbo sotto al letto fino a farlo scomparire per poi essere tirato nuovamente a sé per farlo riapparire.
E’ proprio durante questa azione che vengono emessi i due fonemi precedenti “Fort- Via” e “Da- Qui”.
Per Freud questo gioco, consentiva al bambino di agire la sparizione e l’apparizione materna.
Questa funzione viene associata allacoazione a ripetere. Con questa formulazione Freud intende la tendenza inconsapevole a riproporre, tramite gesti e azioni quotidiane, una sorta di schema, script o modello presente nel mondo interno del bambino, che in passato avrebbe generato una sofferenza.
Per Freud il gioco mostrava che il bambino aveva raggiunto la rappresentazione simbolica della relazione con la madre simulando, con il rocchetto, l’abbandono della madre (che era assente) e il suo ritorno (quando il rocchetto riappariva da sotto il letto).
Siamo giunti al punto in cui, molto probabilmente il lettore si starà chiedendo cosa c’entra lo specchio appannato e Thomas.
Ma chi è Thomas? e Tu…
Lo conosci?
Thomas è l’amico che tutti abbiamo avuto e che all’improvviso è sparito; è quel nome sullo specchio e sul vetro che ci ha fatto compagnia per un tot del nostro destino, per poi svanire.
Thomas è quel rocchetto che fino ad un certo punto è tornato, è stato con noi, è stato in noi poi.. ha deciso di recidere i fili e -lacerando il tessuto dei nostri sentimenti- è andato per la sua strada.
Nei miei incontri di consultazione i pazienti lamentano sempre di più la difficoltà nel mantenere un rapporto chiaro, serio e leale di amicizia.
E l’amicizia è sacra per davvero.
L’investimento emotivo richiesto dal gioco dell’amicizia richiede un mettersi a nudo che è ben diverso dal denudarsi delle relazioni erotiche instaurate con il partner; l’amicizia è mare aperto.
Non conosce confini, orizzonti stabiliti o tempeste fagocitanti.
Quel che non resiste non è amicizia, ma una parola qualunque pronta a scomparire al primo vento che entrando nella stanza, ristabilisce il normale tasso di umidità e libera i vetri dalla condensa che appanna.
Quel che sparisce non resta e ciò che non resta non è (stata) amicizia.
Il riferimento è a Thomas Isidore Noël Sankara, ex presidente del Burkina Faso, assassinato a 37 anni in un colpo di stato dal suo più̀ caro amico. Il triste episodio si è verificato ad una cena in cui, all’improvviso, dopo mangiato, il suo assassino gli sparò in testa. Thomas ebbe solo il tempo di dire: ‘Ma come, proprio tu che sei il mio migliore amico mi uccidi?'”. Roberto Colella a areanapoli.it
La paura degli spazi chiusi, quelli che senti possano toglierti l’aria… Un centro commerciale pieno, il traffico, stare in fila… Sentirsi schiacciati e impossibilitati nel respirare fino a raggiungere il culmine quasi come si stesse per impazzire.
Attraverso la storia di una donna, andiamo alla scoperta del Disturbo Istrionico di personalità.
Le persone con disturbo istrionico di personalità (un tempo disturbo isterico di personalità), sono estremamente emotive (emotivamente cariche) e cercano di continuo di essere al centro dell’attenzione (APA, 2000)…
“Dottore ho la sensazione che le mie parole non abbiano suono, che siano mute, trasparenti.. i miei genitori, praticamente da sempre, mi parlano addosso. Ho la sensazione che non mi ascoltino. Quando ero più piccolo facevo un sogno ricorrente: ero a casa, nella mia stanza, mi sentivo in pericolo, ero in pericolo, urlavo. I miei genitori accorrevano subito e aperta la porta della mia camera mi guardavano, fermi sull’uscio della porta. Chiedevo aiuto, spiegavo concitato la mia paura, volevo che mi aiutassero, che venissero da me. Non mi capivano, non mi ascoltavano, spegnevano la luce e chiudevano la porta. Il buio mi terrorizzava e puntualmente mi svegliavo”
Le parole prendono senso solo quando valorizzate dall’ascolto. L’ascolto presuppone la comprensione. Se ascolto e comprendo posso accogliere il senso delle parole dell’altro e posso riconoscerle. L’ascolto è anche accoglienza. L’ascolto riconosce la parola dell’altro e la valorizza ricoprendola di significato.
Quando non c’è ascolto si svalorizza il significato della parola dell’Altro. Si crea un vuoto di significato che genera ferite profonde in chi vuole essere ascoltato.