“Quando qualcuno ti ascolta davvero senza giudicarti, senza cercare di prendersi la responsabilità per te, senza cercare di plasmarti, ti senti tremendamente bene. Quando sei ascoltato e udito, sei in grado di percepire il tuo mondo in modo nuovo ed andare avanti”.
Carl Rogers.
La capacità di attuare un ascolto empatico, sincero e attento è un cardine della mia professione; qualcosa in cui da sempre credo. Il canale uditivo (a cui sono legata anche a causa dell’altra parte delle mia vita, quella fatta di suoni e musica) ha il potere di creare sintonizzazione con il detto e il non detto.
Ognuno può dire “cosa meglio crede”; le parole possono essere usate in un certo senso a piacimento e di converso, colui o colei che ascolta può filtrare l’informazione e comprenderla (o meno), come meglio crede.
I suoni: acuti, gravi, sussurrati, soffiati ad orecchie più o meno empatiche dicono di noi; raccontano o restano muti..
Dire mentre non si dice o non dire mentre si dice, implica avere dall’altro lato qualcuno che sia pronto a ricevere una informazione non necessariamente chiara, a cui non va applicato giudizio, a cui non va risposto “tu sei”.. ma
Vi è mai capitato di avere a che fare con un datore di lavoro, un capo ufficio, un superiore, un responsabile antipatico, poco incline al dialogo, arrogante, diffidente, ai limiti del cattivo? In effetti è una esperienza molto comune. Credo che quasi tutti nella vita abbiamo avuto la possibilità di avere a che fare con un “capo cattivo”( oppure un insegnante, maestro, professore).
Il fatto è che spesso chi si trova in una posizione di “potere” tende a mostrare una minore sensibilità nei confronti degli altri.
Chi riveste un ruolo di responsabilità, di potere e di forza (anche se momentaneo) è più portato a disumanizzare gli altri; come se spogliasse della loro dignità e dei loro diritti le persone che deve gestire. Secondo due ricercatori dei Paesi bassi (Joris Lammers e Diederik Stapel) questo atteggiamento nei confronti degli altri aiuterebbe il “capo” a gestire meglio il proprio potere e a non soccombere alle emozioni quando si vedono costretti a prendere decisioni complesse che riguardano le persone.
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Anche solo sollecitare il senso di potere aumenta la risposta di deumanizzazione.
“Considerare l’altro un oggetto rinvia invece all’universo della mercificazione, all’uso strumentale del corpo, all’azzeramento dell’anima.”
C. Volpato – Deumanizzazione
La deumanizzazione, in tal senso, può essere un meccanismo che può favorire comportamenti inumani che possono facilmente sfociare, ad esempio, in abusi di potere. Ma, la cosa assurda e paradossale, è che la deumanizzazione può in alcune occasioni o situazioni complesse, aiutare a prendere decisioni che possono comportare sofferenze altrui (decisioni che non prenderebbe nessuno che abbia un minimo di empatia).
Fortunatamente, anche se poche, esistono delle eccezioni, cioè “capi” empatici e molto inclini al dialogo e all’ascolto dei dipendenti.
Comunicare con qualcuno potrebbe apparire come una cosa tutto sommato semplice e diretta. Ma non è così. Dietro il sipario della mera comunicazione formale tra due persone esiste un mondo fatto di teorie e supposizioni.
Buona parte dei nostri scambi interpersonali, ad esempio, è basata sul tentativo di comprendere cosa il nostro interlocutore sta pensando o stia provando in quel momento. Questo modo di “mentalizzare“, comprendere e prevedere il comportamento dell’altro è stato studiato nel 1978 da Premack e Woodruff (Theory of Mind – TOM). Inizialmente il loro oggetto di indagine era la capacità degli scimpanzé di prevedere il comportamento di un umano in situazioni create ad hoc per lo studio e finalizzate ad uno scopo preciso. Gli sperimentatori scoprirono che gli scimpanzé per risolvere il compito erano in grado di attribuire stati mentali alla persona che era con loro nell’esperimento.
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Dopo circa trent’anni queste prime osservazioni aprirono la strada a diversi studi che hanno provato a descrivere e spiegare la comprensione intuitiva che le persone hanno del mondo e delle relazioni sociali.
E’ come se una persona creasse una “teoria” personale atta a spiegare il comportamento degli altri facendo riferimento ai propri e agli altrui stati interni che hanno potuto determinare quel comportamento, quelle parole e cosi via. Sono tentativi di spiegazione, vere e proprie ipotesi sugli stati mentali dell’altra persona.
Questa nostra abilità ci permette di dare un significato personale a quel comportamento (noi abbiamo bisogno di significare le cose e ciò che succede) e magari di avere degli elementi utili per prevederlo in futuro.
Per stati mentali ci si riferisce al funzionamento mentale che può essere articolato in due categorie: gli stati motivazionali e gli stati epistemici. Quest’ultimi riguardano i pensieri, le credenze e le attività mentali orientate alla conoscenza. Gli stati motivazionali sono invece connessi ad attività mentali come sentire, volere, desiderare, sperare.
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Normalmente noi non agiamo sulla base delle cose come sono realmente, ma sulla base delle nostre rappresentazioni, cioè su come pensiamo che esse siano. Per un bambino acquisire una “teoria della mente” significa avere la capacità di capire che esistono punti di vista differenti dal suo, comprendere che il comportamento manifesto di una persona può non coincidere con il suo stato interno e che questo è prevedibile e spiegabile. Questa capacità insomma permette di distinguere la sfera soggettiva (opinioni personali e valori) dalla sfera oggettiva (i fatti), si rende conto inoltre che le persone possono rappresentarsi la realtà interpretandola in maniera diversa.
Concludendo la funzione primaria della “teoria della mente” è di tipo sociale e personale, serve nelle interazioni sociali per comprendere al meglio il comportamento degli altri. E se questa questa facoltà fosse carente, cosa comporterebbe?
L’autolesionismo (in adolescenza) si potrebbe definire come una forma di aggressività auto diretta atta a “scaricare e svuotare” una sensazione di “pieno” malessere interiore che può essere legato a situazioni personali o interpersonali.
È
un fenomeno comportamentale già ampiamente trattato e discusso in letteratura.
Ha radici ampie e molto profonde nelle persone, nella società, nelle diverse
culture e religioni.
Negli ultimi anni questo comportamento pare abbia assunto connotazioni differenti. Difatti la diffusione delle immagini e dei video degli “atti” di self injury, attraverso la rete e i social, funge da rapido “veicolo contenitore” e da amplificatore, per le nuove generazioni di adolescenti. Questi “luoghi del virtuale” raccolgono l’espressione di una collettività che vuole restare invisibile, ma che cerca la visibilità e che si serve del mezzo virtuale per trovare altri simili e limitare così la solitudine che spesso caratterizza questo comportamento.
L’autolesionismo o “Non Suicidal Self-Injury- NSSI” (come descritto nel DSM V) è un comportamento molto diffuso anche in Italia. Il “cutting” (denominazione anglofona) è la forma di autolesionismo più comune, che si manifesta in giovani dai 12 ai 22 anni in particolare. Consiste nel tagliarsi con lamette, coltelli, pezzi di vetro, chiodi. I dati non sono molti, ma si stima che in Italia siano circa 200.000 i giovani (nel 90% ragazze), che praticano il cutting. Il cutting è la forma di autolesionismo più praticata, ma ne esistono diverse; infatti l’autoferimento (self injurious) indica, più in generale, comportamenti volti al danneggiamento del tessuto corporeo, come tagli o bruciature.
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Nella maggior
parte dei casi gli atti di autolesionismo possono svanire con l’età, ma sono
più del 30% i giovani che rischiano il cronicizzarsi. “ Uno studio compiuto su studenti tra
i 13 e i 22 anni di Napoli ha riscontrato che il 42% di questi ha una
precedente storia di comportamento autolesionista ed il 10% riferisce più di 4
episodi nella vita (cit.
CIFRIC) (Cerutti, Manca, Presaghi e Gratz, 2010)”.
Lo
stesso studio, riportato alla popolazione universitaria, stima che circa il 21%
dei partecipanti allo studio ha riferito di aver avuto almeno un episodio di
auto-ferimento. La maggioranza è di sesso femminile e ha iniziato a tagliarsi,
la prima volta, in una età compresa tra i 13 e i 16 anni. In genere, soltanto
il 15% dei minori con questo disagio chiede aiuto.
Negli
ultimi anni, con lo svilupparsi rapido dell’uso delle tecnologie social tra i
giovanissimi, il trend è in forte aumento, a causa anche dell’emulazione
favorita da alcuni social che agevolano inevitabilmente la visibilità del
fenomeno.
Le motivazioni
alla base dei comportamenti di autoferimento, tendono ad essere attribuite dal
self-injurer a cause legate a diverse situazioni e potrebbero essere suddivise
in intrapersonali ed interpersonali. Spesso possono ricorrere a comportamenti autolesivi in
seguito a conflitti con figure importanti e molto significative della propria
vita come familiari, partner o amici.
Quindi le motivazioni potrebbero ricercarsi nella loro difficoltà nel regolare e gestire un certo tipo di emozioni, fermare sensazioni di vuoto, incapacità di reagire a situazioni complesse e stressanti ed altro. Difatti chi si auto ferisce spesso racconta di sentirsi senza speranza e vie d’uscita, oppresso da sensazioni negative. Raccontano, inoltre di sentirsi molto ansiosi e depressi e quindi ricorrono all’autoferimento proprio per provare a gestire questi momenti.
Pare,
infatti, che il gesto dell’autoferimento, riesca in qualche modo a congelare e
fermare queste forti emozioni. Ma la sensazione di “sollievo e benessere” è
molto limitata. L’equilibrio è mantenuto fino alla crisi successiva; pare
insomma che questo tipo di comportamento abbia caratteristiche simili e tipiche
delle dipendenze patologiche.
È quindi necessario comprendere a fondo e
fornire informazioni chiare sui comportamenti autolesionistici, principalmente
sul significato che viene attribuito da chi li mette in atto.
Intervenire in modo preventivo su questo comportamento, potrebbe rivelarsi essenziale, soprattutto nella fascia di età compresa fra i 12 e i 16 anni. Una buona campagna informativa nelle scuole (ad esempio) potrebbe predisporre ad una maggiore sensibilità e comprensione negli adulti (genitori e insegnanti) e nei ragazzi. È importante, infatti, in tali casi, cogliere alcuni segnali caratteristici nei ragazzi che ne soffrono e predisporsi all’ascolto, alla comprensione, all’empatia e cercare quindi un aiuto professionale. Rivolgersi ad uno Psicologo o ad uno Psicoterapeuta è certamente di grande aiuto per le famiglie e per i ragazzi; “cercare di dar sostegno piuttosto che stigmatizzare, inorridire o addirittura schernire o sminuire un comportamento che, per quanto terribile possa apparire, rimane l’unica cosa che dà sollievo al self-injurer” cit. (http://www.sibric.it )