Giorgia Soleri è un nome che alla maggior parte delle persone (specie di una certa età), non dirà granché; non lo diceva nemmeno a me, fino a che non ho preso notizia delle sue dichiarazioni.
La giovane è la fidanzata di Damiano, il frontman dei Maneskin; perché decido di parlare della ragazza visto che, nemmeno mi piace come hanno confezionato il gruppo?
Qualche mese fa, Giorgia ha fatto una dichiarazione circa un disturbo di cui soffre: la vulvodinia, un disturbo (sfortunatamente) democratico, che colpisce le donne in età fertile o in postmenopausa con una incidenza di circa il 10-15%.
Prima di addentrarmi nella questione, voglio chiarire il motivo dell’approfondimento che voglio proporre oggi, al lettore. Nei vari colloqui che tengo, ho potuto notare una incidenza spaventosamente crescente di ragazze (e ragazzi), completamente disinformati sulla “questione sesso e sessualità”. La questione è diventata una seria emergenza in quanto l’aver tralasciato l’importanza di una corretta educazione sessuale, ha incentivato da un lato il dilagante aumento di relazioni disfunzionali e dall’altro, l’aumento di tutta una serie di patologie (di carattere organico o psicogeno) a carico della sfera della sessualità.
Le ragazze non conoscono il proprio corpo; non conoscono il nome dei propri genitali, non sanno “tenere il conto” del proprio ciclo mestruale, non conoscono l’autoerotismo e non sanno cosa sia provare piacere; i ragazzi sembrano essere diventati improvvisamente disinteressati al sesso; trattano le donne come puro possesso, non conoscono l’autoerotismo e non sanno più quale sia il piacere del contatto fisico/emotivo con l’altro corpo.
Ragazzi e ragazze mi hanno dato delle risposte a tratti inquietanti quando mi hanno detto che dopo l’orgasmo “piango; provo tristezza; mi sento svuotato e solo; sono triste; mi sento depresso”…
Partendo da queste osservazioni, ho deciso di parlare oggi, nello spazio che è dedicato alla promozione del benessere psicologico, di vulvodinia.
La prima definizione del termine la si trova nel 1880 e viene definita come una “eccessiva sensibilità dei nervi della mucosa di alcune porzioni della vulva”; nel 1888 è definita come “una malattia caratterizzata da una super sensibilità della vulva. Non è visibile alcuna manifestazione esterna di malattia (..) Quando le dita toccano le parti iperestesiche, la paziente lamenta dolore, talvolta così forte, che piange” .
Dopo queste descrizioni iniziali, per oltre 50 anni non si parlerà più di vulvodinia. E’ nel 2004 che troviamo una definizione di vulvodinia come “un fastidio vulvare, spesso descritto come bruciore, che si verifica in assenza di rilevanti alterazioni visibili o di specifiche, clinicamente evidenziabili, problematiche neurologiche” (ISSVD: Società internazionale per lo studio delle malattie vulvovaginali).
Molte donne giungono in consultazione lamentando una difficoltà nei rapporti sessuali “provo un dolore così forte da aver rinunciato al sesso, Dottoressa; mia moglie piange quando la tocco; mio marito è rude e mi fa male; ho sempre prurito e nessuno capisce cosa ho”.
La patologia si presenta come difficile da diagnosticare, la stessa Giorgia di cui ho parlato inizialmente ha detto di aver sofferto in silenzio per anni; in una intervista ha dichiarato ““Mi sono sentita dire di tutto, che sono pazza, ansiosa, frigida, bugiarda. che ho paura del sesso, che dovrei masturbarmi di più”, confessa Soleri nel post. “La parte peggiore è l’estrema solitudine in cui vieni buttata, giudicata da chi hai intorno e incompresa da chi dovrebbe trovare una diagnosi. Impari a considerare quel dolore – continua . come parte di te, è la tua quotidianità. Così come i sacrifici. Niente jeans stretti, niente collant, niente cibi acidi, niente alcool, niente zuccheri, niente mutande colorate o sintetiche, niente uscite serale, niente di niente. Anche programmare una vacanza diventa un incubo sapendo che potresti passarla sdraiata in un letto a soffrire”.(Da ilfattoquotidiano.it)
Questa condizione patologica in realtà è molto diffusa; la vulvodinia ha una eziologia multifattoriale dove cause biologiche, psicologiche e relazionali si intrecciano dando vita a un circolo vizioso che mantiene e alimenta il dolore cronico vulvare. La ricerca scientifica evidenzia come alcuni aspetti psicologici rappresentano un’importate chiave di lettura della vulvodinia non solo in fase diagnostica ma anche per individuare il giusto trattamento; gli stessi aspetti psicologici che Giorgia non vuole ammettere “mi hanno dato della pazza!”
Anche l’aver sofferto in precedenza, di disturbi ansiosi, depressivi o esser stati vittima di eventi traumatici (come abusi), sembrano predisporre alla vulvodinia o al mantenimento della patologia.
Altri aspetti psicologici che possono influire sono la presenza di pensieri catastrofici riferiti al dolore (catastrofizzazione del dolore); si tratta di uno schema mentale cognitivo ed emotivo negativo, che determina un’amplificazione degli effetti negativi del dolore. Anche la ruminazione su eventi traumatici della propria vita (come abusi sessuali) gioca un forte ruolo nel mantenimento del dolore cronico vulvare; non riesco, non posso o non voglio chiedere aiuto ed elaborare il mio trauma quindi converto in sintomo fisico, il dolore psichico che in questo caso attacca l’organo sessuale, il genitale che brucia, si gonfia, si lacera e prude.
Alla vulvodinia si accompagnano sentimenti di inadeguatezza, senso di frustrazione e di impotenza con un impatto negativo sulla percezione della qualità della vita. Il dolore pelvico può essere così forte da impedire anche normalissime azioni quotidiane come andare in bici, sedersi, indossare jeans attillati.
Per quanto concerne la vita di coppia è importante prendere in considerazioni anche le cause relazionali che possono mantenere o aggravare la percezione del dolore, come la mancanza di intimità, conflitti relazionali, abusi fisici e sessuali da parte del partner. Numerosi studi hanno proprio indagato il ruolo del partner nel mantenimento della condizione dolorosa.
Avendo la vulvodinia una eziologia così multifattoriale, è necessaria una presa in carico globale della paziente che avvenga secondo una ottica bio – psico – sociale che sia svolta in equipe (psicoterapeuta, ginecologo, fisioterapista, sessuologo) al fine di strutturare un progetto terapeutico che metta al centro la persona e non la sua malattia.
È partendo dal corpo, nella sua unitarietà mente-corpo, che è possibile uscire dal labirinto del dolore e della malattia celata; impariamo a chiedere aiuto.
Senza vergogna.
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio
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