Voglio riproporvi un articolo che tratta di un argomento molto attuale, in particolare in quest’ultimo anno, dove un aumento delle ore in rete, sui social, sui videogame ha di fatto aumentato il rischio di cyberbullismo tra i giovani e i meno giovani.
Buona lettura!!
Il cyberbullismo è la derivazione e l’evoluzione tecnologica del bullismo.
Quello del bullismo è un fenomeno tutt’ora diffuso e può essere definito come un’oppressione fisica e psicologica, continuata nel tempo, perpetuata da una persona percepita più forte, nei confronti di una percepita come più debole. Il bullismo riguarda in modo più ampio: ciò che subisce la vittima, il comportamento dell’aggressore/bullo e l’atteggiamento di chi assiste al fatto.
Il bullismo può essere diretto, indiretto, oppure, può evolversi e diventare “elettronico” (diventa quindi cyberbullismo) quando si passa dal piano del reale a quello del virtuale attraverso la diffusione illecita e perpetuata volutamente di messaggi, e-mail, foto, video offensivi (sulle diverse piattaforme social) creati ad hoc e di situazioni di violenze filmate da altri e non rispettosi della dignità altrui.
Spesso il cyberbullismo è legato a fenomeni di bullismo che avvengono nel reale ed è perpetrato con molta…
Siamo proprio certi che le nuove tecnologie, che i nuovi mezzi di comunicazione, ogni anno sempre più raffinati e potenziati siano veramente in grado di “avvicinarci” ?
Tra “me” e l’altro si è in maniera prepotente inserito un mezzo tecnologico che promette di far “rete”, di creare connessioni. La questione è che le persone comunicano tra loro non solo attraverso le parole, ma anche attraverso la comunicazione “analogica” (non verbale). Lo stare insieme, vicini, sentire la presenza reale dell’altro è un’esperienza che difficilmente può essere sostituita. Il rischio, in “assenza di presenza”, che si corre è quello di alimentare il senso dell’assenza con un’inebriante illusione della presenza. Essere solo in presenza degli altri, gruppi di persone anonime e distanti.
Le persone costrette all’uso smodato dell’intermediario tecnologico, perdono la loro abilità sociale, quel senso del reale, dello stare assieme a livello umano, emotivo, psicologico.
“L’incontro con l’altro, o con gli altri, è sempre stata l’esperienza comune e fondamentale per il genere umano “
Il virus si è insinuato silente nelle nostre vite e ne ha modificato radicalmente gli aspetti senza che noi potessimo far nulla. Un nemico invisibile, straniero, aggressivo. L’unica possibilità di fermarlo, ci hanno detto, agli esordi della pandemia, era di fermarci.
Il virus non può sopravvivere a lungo se non gli si offre l’opportunità di moltiplicarsi servendosi di altri organismi. Quindi il distanziamento sociale e fisico è l’unico modo (in assenza di terapie efficaci e vaccini) di tagliare le gambe al virus.
Immagine google
L’uomo da essere sociale ha dovuto disabituarsi d’improvviso alle sue routine e svestirsi delle relazioni sociali, amicali e lavorative consuete e abituarsi a un nuovo modo di interpretare le sue relazioni, il suo lavoro ed infine il suo tempo.
I social e le tecnologie, insieme alla musica da balcone, in un primo momento sono sembrati essere un’arma efficace contro la “solitudine da quarantena”. Uno strumento più che mai utile a farci sentire meno soli e molto efficace per creare “ponti e connessioni” con tutte le persone che volevamo raggiungere da casa, senza rischiare contagi.
Ma possono queste nuove connessioni e relazioni, nuove abitudini didattiche e lavorative (smart working) sostituirsi e compararsi alle “vecchie” senza conseguenze?
Probabilmente no. Ci saranno delle conseguenze sia negative sia positive.
Coronavirus
L’uomo ha bisogno per vivere di relazionarsi ed è difficile che si “accontenti” solo di contatti virtuali. Il rischio è sentirci in trappola a casa nostra.
Il nostro carceriere invisibile, costringendoci a casa, ci rende ansiosi, tristi, annoiati, impauriti, insicuri, angosciati, ma “l’uomo, per fortuna, ha la capacità di attingere alle tante risorse personali per venire fuori da situazioni difficili. Una delle più importanti è la capacità di essere resiliente. Questa caratteristica permette di arricchirci utilizzando le esperienze e le emozioni vissute, anche se traumatiche e angosciose. La paura può diventare un’emozione positiva se riusciamo a comprenderla e ad affrontarla.
È importante ripartire adattandosi ai cambiamenti e ri – costruirsi dandosi la possibilità di farlo e il giusto tempo per farlo”
Sotto il link di una mia breve intervista su Informa Press
Il cyberbullismo è la derivazione e l’evoluzione tecnologica del bullismo.
Quello del bullismo è un fenomeno tutt’ora diffuso e può essere definito come un’oppressione fisica e psicologica, continuata nel tempo, perpetuata da una persona percepita più forte, nei confronti di una percepita come più debole. Il bullismo riguarda in modo più ampio: ciò che subisce la vittima, il comportamento dell’aggressore/bullo e l’atteggiamento di chi assiste al fatto.
Il bullismo può essere diretto, indiretto, oppure, può evolversi e diventare “elettronico” (diventa quindi cyberbullismo) quando si passa dal piano del reale a quello del virtuale attraverso la diffusione illecita e perpetuata volutamente di messaggi, e-mail, foto, video offensivi (sulle diverse piattaforme social) creati ad hoc e di situazioni di violenze filmate da altri e non rispettosi della dignità altrui.
Spesso il cyberbullismo è legato a fenomeni di bullismo che avvengono nel reale ed è perpetrato con molta più facilità perché ancor meno controllato e gestibile. Inoltre gli atti violenti generati online influenzano anche le vite offline delle vittime e dei bulli.
Caratteristiche del Cyberbullismo.
Il
cyber bullismo ha alcune caratteristiche ben individuabili:
è pervasivo ed iper-accessibile: il cyber bullo, purtroppo, ha la possibilità di raggiungere la sua vittima in tutti i momenti e in qualunque luogo;
ha spettatori illimitati: il materiale messo in rete diventa fruibile da un numero elevatissimo di persone e può diventare incontrollabile;
persistenza nel tempo: il rischio maggiore è che il materiale, proprio per le caratteristiche del web, possa essere disponibile a tutti per troppo tempo, prima di essere arginato ed eliminato;
moltiplicazione ed emulazione del cyberbullismo: grave è anche la possibilità che le gesta e gli atti incriminati, diventino facilmente modello di emulazione;
mancanza di un feedback emotivo: chi attua il bullismo e lo divulga, chi segue e da spettatore fomenta, non riesce assolutamente a rendersi conto della gravità di ciò che perpetua, anche perché non vi è un riscontro diretto con le vittime e le loro reazioni.
Il cyberbullo spesso è una persona che conosce la vittima, ma può capitare anche che sia qualcuno estraneo e può essere supportato nei suoi comportamenti vessatori anche da altri cyberbulli.
La rete internet permette al sé di celarsi con più facilità e garantisce in apparenza maggiore protezione, anonimato e potere, sia sul tempo che sullo spazio virtuale, per il bullo.
Il cyberbullismo è un fenomeno subdolo perché complicato da individuare e di difficile denuncia da parte delle vittime, che in alcuni casi molto gravi può portare a depressione e al suicidio nelle vittime, come hanno mostrato, purtroppo, casi recenti di cronaca in Italia.
Nei casi meno gravi si può incorrere, in chi lo subisce ad un generale effetto negativo sul benessere personale, psicologico, emotivo e sociale. Spesso le vittime possono incorrere nella chiusura sociale, in problemi scolastici, disturbi dell’umore più o meno gravi, fobia sociale, perdita dell’autostima. Problematiche che unite ai cambiamenti psicofisiologici in atto nell’adolescenza (considerando che il problema del bullismo è più frequente nella fascia d’età compresa tra i 12 e i 17/18 anni) può davvero creare squilibri importanti a livello psicologico nelle vittime e nelle famiglie di queste.
Le conseguenze in genere coinvolgono anche i cyberbulli che corrono il rischio di sviluppare problemi nella sfera relazionale, comportamenti antisociali, abuso di sostanze delinquenza.
I numeri del Cyberbullismo
Secondo
l’indagine “I
ragazzi e il Cyberbullismo” realizzata da Ipsos per Save the
Children nel 2013, attraverso 810 interviste con questionari compilati
online da ragazzi di età compresa fra 12 e 17 anni, nel periodo che va dal 20
al 26 gennaio 2013, i 2/3 dei minori italiani riconoscono nel cyber bullismo la
principale minaccia del proprio tempo. Per tanti di loro, il cyber bullismo
arriva a compromettere il rendimento scolastico (38%, che sale al 43% nel
nord-ovest) erode la volontà di aggregazione della vittima (65%, con picchi del
70% nelle ragazzine tra i 12 e i 14 anni e al centro), e nei peggiori dei casi
può comportare serie conseguenze psicologiche come la depressione (57%,
percentuale che sale al 63% nelle ragazze tra i 15 e i 17 anni, mentre si
abbassa al 51% nel nord-est). Viene inoltre percepito come più pericoloso tra
le minacce tangibili della nostra era per il 72% dei ragazzi intervistati (percentuale
che sale all’85% per i maschi tra i 12 e i 14 anni e al 77% nel sud e nelle
isole, ), più della droga, del pericolo di subire una molestia da un adulto o
del rischio di contrarre una malattia sessualmente trasmissibile.
In un’altra indagine più recente chiamata “Osservatorio adolescenti” e presentata da Telefono Azzurro e DoxaKids nel mese di novembre 2014, si è andato ad analizzare un campione di oltre 1500 studenti italiani di età compresa tra gli 11 e i 19 anni. Questa indagine ha mostrato come il cyberbullismo sia un fenomeno ben noto ai ragazzi: l’80,3% degli intervistati ha sentito parlare di cyberbullismo; 2 su 3 (39,2%) conoscono qualcuno che ne è stato vittima, 1 su 10 ne è stato vittima(10,8% degli intervistati; il 9,1% dei ragazzi ed il 12,6% delle ragazze). “Dalla stessa indagine è emerso che i ragazzi che sono stati vittime di cyberbullismo esprimono più frequentemente manifestazioni di disagio, quali difficoltà a dormire e poca voglia di mangiare, ma anche vissuti di solitudine e scarsa gratificazione nelle relazioni interpersonali, come ad esempio il timore di essere derisi dagli altri”(http://www.azzurro.it).
Secondo
i dati più recenti, i fenomeni in questione sono quindi in espansione (anche in
Italia) e sono di un importanza sociale fondamentale, perché si rivolgono ad
una fascia d’età che si avvia verso l’età adulta e che quindi può compromettere
seriamente la propria produttività all’interno del contesto sociale
d’appartenenza, in una situazione psico-socio-economica generale già molto
complicata.
Oggi ci sono numerose iniziative sociali governative e regionali di sensibilizzazione dentro e fuori le scuole e questo è un bene.
Bisogna però che la nebbia dell’indifferenza, della paura e del silenzio si diradi e che se ne parli di più nei contesti familiari e amicali, in modo da poter denunciare e intervenire più tempestivamente e potersi rivolgere subito a psicologi, educatori, insegnanti e anche medici in grado di aiutare le vittime, i carnefici e le loro famiglie.
L’autolesionismo (in adolescenza) si potrebbe definire come una forma di aggressività auto diretta atta a “scaricare e svuotare” una sensazione di “pieno” malessere interiore che può essere legato a situazioni personali o interpersonali.
È
un fenomeno comportamentale già ampiamente trattato e discusso in letteratura.
Ha radici ampie e molto profonde nelle persone, nella società, nelle diverse
culture e religioni.
Negli ultimi anni questo comportamento pare abbia assunto connotazioni differenti. Difatti la diffusione delle immagini e dei video degli “atti” di self injury, attraverso la rete e i social, funge da rapido “veicolo contenitore” e da amplificatore, per le nuove generazioni di adolescenti. Questi “luoghi del virtuale” raccolgono l’espressione di una collettività che vuole restare invisibile, ma che cerca la visibilità e che si serve del mezzo virtuale per trovare altri simili e limitare così la solitudine che spesso caratterizza questo comportamento.
L’autolesionismo o “Non Suicidal Self-Injury- NSSI” (come descritto nel DSM V) è un comportamento molto diffuso anche in Italia. Il “cutting” (denominazione anglofona) è la forma di autolesionismo più comune, che si manifesta in giovani dai 12 ai 22 anni in particolare. Consiste nel tagliarsi con lamette, coltelli, pezzi di vetro, chiodi. I dati non sono molti, ma si stima che in Italia siano circa 200.000 i giovani (nel 90% ragazze), che praticano il cutting. Il cutting è la forma di autolesionismo più praticata, ma ne esistono diverse; infatti l’autoferimento (self injurious) indica, più in generale, comportamenti volti al danneggiamento del tessuto corporeo, come tagli o bruciature.
immagine tumbrl
Nella maggior
parte dei casi gli atti di autolesionismo possono svanire con l’età, ma sono
più del 30% i giovani che rischiano il cronicizzarsi. “ Uno studio compiuto su studenti tra
i 13 e i 22 anni di Napoli ha riscontrato che il 42% di questi ha una
precedente storia di comportamento autolesionista ed il 10% riferisce più di 4
episodi nella vita (cit.
CIFRIC) (Cerutti, Manca, Presaghi e Gratz, 2010)”.
Lo
stesso studio, riportato alla popolazione universitaria, stima che circa il 21%
dei partecipanti allo studio ha riferito di aver avuto almeno un episodio di
auto-ferimento. La maggioranza è di sesso femminile e ha iniziato a tagliarsi,
la prima volta, in una età compresa tra i 13 e i 16 anni. In genere, soltanto
il 15% dei minori con questo disagio chiede aiuto.
Negli
ultimi anni, con lo svilupparsi rapido dell’uso delle tecnologie social tra i
giovanissimi, il trend è in forte aumento, a causa anche dell’emulazione
favorita da alcuni social che agevolano inevitabilmente la visibilità del
fenomeno.
Le motivazioni
alla base dei comportamenti di autoferimento, tendono ad essere attribuite dal
self-injurer a cause legate a diverse situazioni e potrebbero essere suddivise
in intrapersonali ed interpersonali. Spesso possono ricorrere a comportamenti autolesivi in
seguito a conflitti con figure importanti e molto significative della propria
vita come familiari, partner o amici.
Quindi le motivazioni potrebbero ricercarsi nella loro difficoltà nel regolare e gestire un certo tipo di emozioni, fermare sensazioni di vuoto, incapacità di reagire a situazioni complesse e stressanti ed altro. Difatti chi si auto ferisce spesso racconta di sentirsi senza speranza e vie d’uscita, oppresso da sensazioni negative. Raccontano, inoltre di sentirsi molto ansiosi e depressi e quindi ricorrono all’autoferimento proprio per provare a gestire questi momenti.
Pare,
infatti, che il gesto dell’autoferimento, riesca in qualche modo a congelare e
fermare queste forti emozioni. Ma la sensazione di “sollievo e benessere” è
molto limitata. L’equilibrio è mantenuto fino alla crisi successiva; pare
insomma che questo tipo di comportamento abbia caratteristiche simili e tipiche
delle dipendenze patologiche.
È quindi necessario comprendere a fondo e
fornire informazioni chiare sui comportamenti autolesionistici, principalmente
sul significato che viene attribuito da chi li mette in atto.
Intervenire in modo preventivo su questo comportamento, potrebbe rivelarsi essenziale, soprattutto nella fascia di età compresa fra i 12 e i 16 anni. Una buona campagna informativa nelle scuole (ad esempio) potrebbe predisporre ad una maggiore sensibilità e comprensione negli adulti (genitori e insegnanti) e nei ragazzi. È importante, infatti, in tali casi, cogliere alcuni segnali caratteristici nei ragazzi che ne soffrono e predisporsi all’ascolto, alla comprensione, all’empatia e cercare quindi un aiuto professionale. Rivolgersi ad uno Psicologo o ad uno Psicoterapeuta è certamente di grande aiuto per le famiglie e per i ragazzi; “cercare di dar sostegno piuttosto che stigmatizzare, inorridire o addirittura schernire o sminuire un comportamento che, per quanto terribile possa apparire, rimane l’unica cosa che dà sollievo al self-injurer” cit. (http://www.sibric.it )