
“No.. Dottorè.. io le devo dire una cosa..
Ci ho pensato.. e niente… credo che.. cioè…
Lascio la terapia”.
Oggi vorrei condividere con voi una riflessione partendo da un colloquio cui ho avuto modo di assistere in mattinata.
Una precisazione appare doverosa: quanto di quello che a breve esporrò, non ha lo scopo di giudicare o dare etichetta a certi comportamenti (durante la prima lezione di psicologia generale, alla triennale, mi fu insegnato di essere senza giudizio, aspetto che comunque mi appartiene al di là della sola professione).
“Questo psicologo non serve a niente; gli psicologi sono inutili; me ne vado, questa terapia è inutile”.
Anche queste frasi sono estrapolate da colloqui o sono state udite da me in giro (e non solo).
Nella Lezione 23 di Introduzione alla Psicoanalisi, Freud parla di vantaggi secondari del sintomo.
Se mi leggi da un pò, saprai che ho spesso parlato del fatto che il nostro apparato psichico funziona per quantità e non per qualità; questo vuol dire che funziona – in un certo senso- per carica e scarica.
Funzionare in questo modo implica che se io investo (perdo, ad esempio) una certa quantità di energia per mantenere qualcosa (nel nostro caso, il sintomo), se io – passami il paragone- mi stanco per mantenere una certa psicopatologia, ho “bisogno” di ricavarne qualcosa in cambio.
La malattia non ha infatti solo aspetti negativi ma può avere anche aspetti positivi legati alla malattia stessa (o alla sua simulazione).
Uno dei casi più evidenti di vantaggio secondario è ad esempio quello espresso dai fobici o ansiosi che evitano un luogo per stare al sicuro a casa propria, così come il caso in cui “ho paura mi sento solo e tu mi coccoli e ti prendi cura di me”.
Uno dei vantaggi secondari spesso evidenziati lo si ritrova nei disturbi alimentari (notoriamente molto resistenti al trattamento), dove la cachessia (nel caso dell’anoressia) o i disturbi ad esempio cardiaci dell’obesità, creano un bisogno di cura tale da giustificare – talvolta- tutta la sofferenza sottesa.
E’ bene sottolineare, ancora una volta, che ogni storia è a sè e che non possiamo attuare lo stesso ascolto o la stessa visione per ogni caso, la valenza del mio scritto è puramente divulgativa e centrata sul voler far capire perchè talvolta il nostro caro/a rifiuta l’aiuto o sembra non mostrare miglioramento alcuno dalla terapia.
Il motivo, in sostanza, non è necessariamente del terapeuta o dell’approccio stesso scelto.
I vantaggi secondari sono spesso nascosti o comunque molto sottili tanto che non necessariamente il paziente è consapevole di metterli in atto. Accade spesso che chi mette in atto tali atteggiamenti “vanta” di avere al proprio fianco persone molto importanti e accorte nella comprensione del proprio disagio; si tratta di compagni, amici o familiari molto presenti e vicini nella vita del soggetto; persone così propense a stare accanto che – senza rendersene conto- facilitano il cronicizzarsi del disturbo.
Quando capitano casi come quello citato in apertura (sottolineo comunque che è spesso visibile da subito un paziente che abbandonerà il percorso; in sostanza l’abbandono della signora non è stata una sorpresa ), spetta noi il compito di provare ad analizzare per l’ultima volta il motivo di questa decisione, valutandone i pro e i contro.
Non ci sarà atteggiamento “di convincimento”; la terapia non si obbliga, non si impone al massimo: si consiglia.
Dopo aver evidenziato che il percorso non era terminato (in realtà non era neanche iniziato), abbiamo – insieme alla collega- rinnovato la nostra disponibilità ad essere presenti qualora la signora cambi idea e con un sorriso appannato dalle mascherine, abbiamo augurato una buona giornata (a cui aggiungo un enorme buona fortuna), alla signora che un pò stranita, ha abbandonato lo studio.
In tutto questo…
Sapete che non necessariamente la terapia inizia nel momento in cui entrate nello studio dello psicologo?
https://ilpensierononlineare.com/2020/11/28/psicologo-psicoterapeuta-psichiatra-o-neurologo/
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy Di Maio