Cos’ è il rancore? Il rancore è un sentimento spesso difficile da accettare, ma fa parte dell’esperienza e del vissuto di tutti. E sembrerà strano dirlo, ma può avere una funzione positiva perché ci aiuta a reagire nei momenti più dolorosi della nostra vita. Di questo però ne parlerò alla fine. Vediamo cosa si intende per rancore.
Il rancore è un sentimento complesso e nasce dal compendio di diverse emozioni semplici e complesse come rabbia, odio, risentimento, tristezza, astio e disprezzo. Ha qualcosa a che fare anche con emozioni e sentimenti più lontani, ma direttamente correlati come l’invidia (per qualcuno che, dal nostro punto di vista, ha avuto più di noi ingiustamente) e il rimorso ( per non aver reagito nella maniera giusta ad un offesa, ad esempio). Insomma il rancore è un sentimento, uno stato mentale duraturo e pervasivo. La differenza con la rabbia è da rintracciare nella durata (molto più lunga e permanente nel rancore) , nella reazione immediata (della rabbia) e intensa.
Lo stato mentale legato al rancore può restare latente e acuirsi improvvisamente, per poi tornare, presente ma costante. Difficilmente si estingue. La caratteristica pervasiva del rancore è proprio nel ri-sentire, rimuginare a lungo su eventi negativi (un torto subito) che inizialmente si legavano ad emozioni meno complesse, come tristezza o rabbia o odio, ad esempio.
Il rancore è direttamente collegato ad un dolore più “intimo” che può nascere da una ferita provocata da una relazione che ha tradito le nostre aspettative e che ci ha deluso profondamente.
Spesso il rancore può avere “radici familiari”, dove ad esempio possono capitare squilibri più o meno gravi, legati a preferenze, mancanze affettive percepite, difetti di comunicazione. In questi casi i più piccoli possono avere la peggio e cominciare ad alimentare il proprio rancore. Spesso nei bambini l’impossibilità di esprimere la propria rabbia genera una sensazione di impotenza che si trasforma in pensiero ripetitivo e poi in desiderio di vendetta. Le conseguenze potrebbero poi alimentare comportamenti disfunzionali come il bullismo; il rancore è però anche il sentimento prevalente di molte vittime del bullismo. In entrambe i casi, se non si interviene per tempo, le conseguenze possono essere serie.
In alcuni casi più gravi, negli adulti, il rancore può arrivare a sconfinare nella patologia. Lo si può trovare come sentimento preponderante nel disturbo paranoide di personalità e del disturbo borderline (presente con deliri), ma anche in chi soffre di aggressività patologica.
Insomma il rancore ha meno possibilità di “risolversi” e attenuarsi se resta esclusivamente una esperienza personale e interiorizzata. Come si può quindi convertire in positivo l’esperienza rancorosa? In genere la comunicazione può indurre il superamento e la psicoterapia può decisamente portare ad un cambiamento in positivo, perché attraverso essa si può avviare un processo di reinterpretazione di quella realtà che aveva generato sentimenti di rancore. Una nuova consapevolezza può aiutarci a ripartire e a riprendere di nuovo la nostra vita in mano.
La trattazione sulla “terra di mezzo”rappresentata dall’adolescenza, continua con il provare ad indagare più nel dettaglio il concetto di malessere. Spesso accade che gli adolescenti vengano additati quasi come ragazzi privi di pensieri e sentimenti “che ne sai tu.. che pensieri puoi mai avere.. sei solo un ragazzino!” oppure “zitto tu.. sei solo un piccolo delinquente!”
Accade (spesso) che- proprio quel ragazzino o quella ragazzina- (insensibile, delinquente, spensierato)… celi in se stesso profondi sentimenti, pensieri, emozioni che vorrebbero essere mostrati, compresi, in sostanza: visti.
Immagine personale, “Berlino 2014”.
Cruciani (2015), evidenzia come il concetto di male (e con esso tutto il corredato che dal malessere sfocia in distruttività), non affondi le proprie radici in un terreno prettamente psicoanalitico, e al contempo ne sostiene la possibilità, da parte della psicoanalisi, di non restare impassibili di fronte ad un argomento che attiene a una sfera “più ampia, morale, etica e deontologica, alla quale nessuno può sottrarsi e con la quale anche gli psicoanalisti devono confrontarsi”.
Le domande a cui desidero al momento provare a rispondere, riguardano pertanto il provare a rintracciare una definizione che spieghi cosa sia il malessere che colpisce gli adolescenti, e se sia possibile considerare la violenza agita, una semplice modalità di scarica pulsionale, oppure se di converso, vi sia qualcosa in più.
“L’essere viene meno con ciò che lo sostiene. Questo malessere nell’umanità dell’uomo, in un’ampia area dell’umanità, produce sia questa impregnazione cupa e melanconica che si impossessa degli animi e dei corpi, dei legami intersoggettivi e delle strutture sociali, sia questa cultura dell’eccesso maniacale e onnipotente. La questione che ci interessa è quella relativa ai principali ostacoli che contrastano il processo dellasoggettivazione, il divenire Io, la capacità stessa di esistere, di stringere legami e di fare società” (Kaës, 2012, p.22).
Il crollo dei garanti metapsichici ha reso l’adolescente sempre più esposto, e lo ha lasciato a “dover fare i conti” con tutto ciò che viene indicato come crisi adolescenziale, in cui “la necessità di risolvere i problemi posti dalla rivoluzione identitaria che coinvolge la corporeità, le relazioni intra ed extrafamiliari, l’assunzione di un ruolo sessuale e simbolico adulto, appaiono ricadere integralmente sulle spalle del singolo, il quale si ritrova spesso sguarnito non solo di adeguati strumenti psichici, ma anche di adeguati punti di riferimento simbolici” (De Micco, 2011). Ne deriva che questa labilità nell’universo di riferimento simbolico, e il relativo crollo delle funzioni di garante metapsichico, porti ad una incapacità di offrire una adeguata risposta ai diversi interrogativi che l’individuo può trovarsi di fronte. La conseguenza sembra allora essere una difficoltà nel collocarsi nella propria identità; questa difficoltà è evidente soprattutto in occidente, dove si assiste al logoramento di alcune forme collettive di garanzia nel senso di identità individuale, con il risultato che l’individuo si affida sempre più a forme simboliche di rifondazione della propria identità.
Le Breton (2002) evidenzia come siano proprio gli adolescenti in particolare, ad essere spesso nella condizione di utilizzare dei riti o atti di passaggio, per lenire tutte quelle angosce identitarie che la fase adolescenziale comporta; “tali atti di passaggio prendono spesso la forma di pseudorituali gruppali o addirittura individuali, e comportano spesso una precisa marcatura corporea” (De Micco, 2011). Ogni individuo infatti, appartiene ad un determinato gruppo sociale, che ha (come precedentemente rimarcato) il compito di fornirgli quella intelaiatura simbolica, che lo identificherà con un corpo (il suo), il nome (il suo) e l’ascendenza (che lo inscriverà in una precisa genealogia, che gli indicherà il posto da occupare). Ciò che il crollo dei garanti metapsichici e metasociali ha comportato, è stato proprio il venir meno di questa intelaiatura simbolica, esponendo il giovane a profonde crisi identitarie, che per essere lenite vengono agite con degli acting -out, che non paiono tuttavia essere delle semplici modalità evacuative, di scarica pulsionale, ma sembrano soprattutto l’espressione di un tentativo di dar forma proprio a tali pensieri non pensabili, tentativo che usa il corpo come mezzo per cercare uno spazio rappresentativo. Tutti questi atti violenti, che sembrano essere in costante aumento, sembrano quindi più che una modalità di arrecare un reale danno alla vittima (non risulta in definitiva importante colui che subisce la violenza), un tentativo di rendersi meno opaco (ai propri occhi e a quelli dell’Altro), e di risanare quello spazio lasciato vuoto da un Io, che cerca continuamente di “avvenire”.
Nel 1964 a New York, un triste caso balzato alle cronache diede il via a tutta una serie di ricerche nell’ambito della psicologia sociale. Una donna di nome Kitty Genovese venne aggredita durante la notte da un uomo che armato di coltello la colpì ripetutamente, fino a lasciarla a terra agonizzante. Kitty Genovese urlò così tanto, da svegliare 38 persone che ben presto si affacciarono alla finestra. Queste persone riuscivano a vedere cosa stesse accadendo in strada e si vedevano l’un l’altro; nonostante ciò, nessuno di loro chiamò la polizia prima di mezz’ora. Durante questo tempo di stallo però, l’assassino non stette parimenti con le mani in mano, ma anzi.. ebbe tempo di ritornare indietro e continuare ad infliggere ulteriori coltellate alla donna la quale, ben presto morì.
Cosa era accaduto?,Perché nessuna di quelle 38 persone chiamò la polizia non appena Kitty Genovese iniziò ad urlare? Gli psicologi hanno pertanto cercato di indagare sperimentalmente la questione, per provare ad evidenziare quali possano essere degli elementi legati alle circostanze che possono influire (spesso in modo determinante) sulla dimensione altruismo/egoismo, prima di mettere in atto una determinata decisione (che spesso andrebbe presa, come in questo caso, in pochi secondi).
Una delle spiegazioni maggiormente utilizzate dagli psicologi, concerne la possibilità di andare a considerare non i vantaggi (per l’individuo o la specie) del comportamento altruistico (in questo caso la possibilità di salvare una vita, o di sentirsi utili), ma le circostanze che, a parità di altre condizioni, rendono più frequente aiutare o meno un’altra persona.
L’ipotesi proposta di basa sul concetto di assunzione di responsabilità: quanto più un individuo si sente investito della responsabilità di intervenire (per aiutare qualcuno o porre rimedio a una determinata situazione), tanto più è probabile che lo faccia. Sono svariate le circostanze che determinano l’essere o il sentirsi responsabili; tra queste ad esempio avere una posizione di “potere” , come essere il capogruppo o il leader. Altre volte sono circostanze accidentali (come il numero degli individui che si trovano sul luogo di un incidente) a determinare se un individuo che chiede aiuto, sarà o meno soccorso. Cosa c’entra quanto appena detto, con il caso di Kitty Genovese?
Due psicologi sociali John Darley e Bibb Latanè, hanno dedicato gran parte della loro ricerca al fenomeno dell’assunzione di responsabilità. Secondo i due autori, è possibile riassumere in cinque punti il processo che porta a prendere o meno la decisione di intervenire.
si presenta una situazione (almeno potenziale) di pericolo
la situazione deve essere definita come un caso di emergenza
la persona che viene a conoscenza del pericolo deve sentire la responsabilità di intervenire in aiuto
questa persona deve avere qualche idea su cosa fare per aiutare
la persona accorre in aiuto.
Il focus delle ricerche dei due autori riguarda il punto 3. Gli psicologi hanno infatti studiato in maniera approfondita le condizioni nelle quali un individuo si sente più o meno responsabile di ciò che accade al suo prossimo.Ciò che viene evidenziato è che non sono tanto importanti le caratteristiche (personalità) di chi deve prestare aiuto, o quelle della persona da aiutare; non è altresì importante l’eventuale pericolosità o gravità dell’intervento. L’ipotesi di Darley e Latanè è invece: quanto più numerose sono le persone che in una data circostanza di pericolo o emergenza sono effettivamente in grado di accorrere in aiuto, tanto meno ciascuna di loro si sentirà investita della responsabilità di agire. In sostanza ciascuno penserà “perchè devo farlo io, sicuramente lo avrà già fatto qualcun altro”.
Sembra quindi che quella sera l’unica “colpa” di Kitty Genovese, sia stata che troppe persone abbiano udito le sue urla disperate.
E voi? Avreste aiutato Kitty Genovese? Pensate di essere persone altruiste oppure no?
Il cyberbullismo è la derivazione e l’evoluzione tecnologica del bullismo.
Quello del bullismo è un fenomeno tutt’ora diffuso e può essere definito come un’oppressione fisica e psicologica, continuata nel tempo, perpetuata da una persona percepita più forte, nei confronti di una percepita come più debole. Il bullismo riguarda in modo più ampio: ciò che subisce la vittima, il comportamento dell’aggressore/bullo e l’atteggiamento di chi assiste al fatto.
Il bullismo può essere diretto, indiretto, oppure, può evolversi e diventare “elettronico” (diventa quindi cyberbullismo) quando si passa dal piano del reale a quello del virtuale attraverso la diffusione illecita e perpetuata volutamente di messaggi, e-mail, foto, video offensivi (sulle diverse piattaforme social) creati ad hoc e di situazioni di violenze filmate da altri e non rispettosi della dignità altrui.
Spesso il cyberbullismo è legato a fenomeni di bullismo che avvengono nel reale ed è perpetrato con molta più facilità perché ancor meno controllato e gestibile. Inoltre gli atti violenti generati online influenzano anche le vite offline delle vittime e dei bulli.
Caratteristiche del Cyberbullismo.
Il
cyber bullismo ha alcune caratteristiche ben individuabili:
è pervasivo ed iper-accessibile: il cyber bullo, purtroppo, ha la possibilità di raggiungere la sua vittima in tutti i momenti e in qualunque luogo;
ha spettatori illimitati: il materiale messo in rete diventa fruibile da un numero elevatissimo di persone e può diventare incontrollabile;
persistenza nel tempo: il rischio maggiore è che il materiale, proprio per le caratteristiche del web, possa essere disponibile a tutti per troppo tempo, prima di essere arginato ed eliminato;
moltiplicazione ed emulazione del cyberbullismo: grave è anche la possibilità che le gesta e gli atti incriminati, diventino facilmente modello di emulazione;
mancanza di un feedback emotivo: chi attua il bullismo e lo divulga, chi segue e da spettatore fomenta, non riesce assolutamente a rendersi conto della gravità di ciò che perpetua, anche perché non vi è un riscontro diretto con le vittime e le loro reazioni.
Il cyberbullo spesso è una persona che conosce la vittima, ma può capitare anche che sia qualcuno estraneo e può essere supportato nei suoi comportamenti vessatori anche da altri cyberbulli.
La rete internet permette al sé di celarsi con più facilità e garantisce in apparenza maggiore protezione, anonimato e potere, sia sul tempo che sullo spazio virtuale, per il bullo.
Il cyberbullismo è un fenomeno subdolo perché complicato da individuare e di difficile denuncia da parte delle vittime, che in alcuni casi molto gravi può portare a depressione e al suicidio nelle vittime, come hanno mostrato, purtroppo, casi recenti di cronaca in Italia.
Nei casi meno gravi si può incorrere, in chi lo subisce ad un generale effetto negativo sul benessere personale, psicologico, emotivo e sociale. Spesso le vittime possono incorrere nella chiusura sociale, in problemi scolastici, disturbi dell’umore più o meno gravi, fobia sociale, perdita dell’autostima. Problematiche che unite ai cambiamenti psicofisiologici in atto nell’adolescenza (considerando che il problema del bullismo è più frequente nella fascia d’età compresa tra i 12 e i 17/18 anni) può davvero creare squilibri importanti a livello psicologico nelle vittime e nelle famiglie di queste.
Le conseguenze in genere coinvolgono anche i cyberbulli che corrono il rischio di sviluppare problemi nella sfera relazionale, comportamenti antisociali, abuso di sostanze delinquenza.
I numeri del Cyberbullismo
Secondo
l’indagine “I
ragazzi e il Cyberbullismo” realizzata da Ipsos per Save the
Children nel 2013, attraverso 810 interviste con questionari compilati
online da ragazzi di età compresa fra 12 e 17 anni, nel periodo che va dal 20
al 26 gennaio 2013, i 2/3 dei minori italiani riconoscono nel cyber bullismo la
principale minaccia del proprio tempo. Per tanti di loro, il cyber bullismo
arriva a compromettere il rendimento scolastico (38%, che sale al 43% nel
nord-ovest) erode la volontà di aggregazione della vittima (65%, con picchi del
70% nelle ragazzine tra i 12 e i 14 anni e al centro), e nei peggiori dei casi
può comportare serie conseguenze psicologiche come la depressione (57%,
percentuale che sale al 63% nelle ragazze tra i 15 e i 17 anni, mentre si
abbassa al 51% nel nord-est). Viene inoltre percepito come più pericoloso tra
le minacce tangibili della nostra era per il 72% dei ragazzi intervistati (percentuale
che sale all’85% per i maschi tra i 12 e i 14 anni e al 77% nel sud e nelle
isole, ), più della droga, del pericolo di subire una molestia da un adulto o
del rischio di contrarre una malattia sessualmente trasmissibile.
In un’altra indagine più recente chiamata “Osservatorio adolescenti” e presentata da Telefono Azzurro e DoxaKids nel mese di novembre 2014, si è andato ad analizzare un campione di oltre 1500 studenti italiani di età compresa tra gli 11 e i 19 anni. Questa indagine ha mostrato come il cyberbullismo sia un fenomeno ben noto ai ragazzi: l’80,3% degli intervistati ha sentito parlare di cyberbullismo; 2 su 3 (39,2%) conoscono qualcuno che ne è stato vittima, 1 su 10 ne è stato vittima(10,8% degli intervistati; il 9,1% dei ragazzi ed il 12,6% delle ragazze). “Dalla stessa indagine è emerso che i ragazzi che sono stati vittime di cyberbullismo esprimono più frequentemente manifestazioni di disagio, quali difficoltà a dormire e poca voglia di mangiare, ma anche vissuti di solitudine e scarsa gratificazione nelle relazioni interpersonali, come ad esempio il timore di essere derisi dagli altri”(http://www.azzurro.it).
Secondo
i dati più recenti, i fenomeni in questione sono quindi in espansione (anche in
Italia) e sono di un importanza sociale fondamentale, perché si rivolgono ad
una fascia d’età che si avvia verso l’età adulta e che quindi può compromettere
seriamente la propria produttività all’interno del contesto sociale
d’appartenenza, in una situazione psico-socio-economica generale già molto
complicata.
Oggi ci sono numerose iniziative sociali governative e regionali di sensibilizzazione dentro e fuori le scuole e questo è un bene.
Bisogna però che la nebbia dell’indifferenza, della paura e del silenzio si diradi e che se ne parli di più nei contesti familiari e amicali, in modo da poter denunciare e intervenire più tempestivamente e potersi rivolgere subito a psicologi, educatori, insegnanti e anche medici in grado di aiutare le vittime, i carnefici e le loro famiglie.