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La Sindrome di Stendhal – PODCAST

Nel 1817 lo scrittore francese Marie-Henri Beyle (Stendhal) attraversò la penisola italiana durante il suo Grand Tour e tenne un diario poi pubblicato nella sua opera “Roma, Napoli e Firenze” dove per la prima volta descrisse questa esperienza psichica:

«Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da santa Croce ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.»

Stendhal

Tachicardia, vertigini, capogiri, allucinazioni, confusione, alterazione della percezione, scompensi affettivi, depressione, ansia, attacchi di panico, manie persecutorie..

Può un’opera d’arte generare così tanto scompiglio nella mente di un uomo?

Oggi parleremo di un’esperienza psichica al limite, scatenata da un’esperienza personale psicologica emotiva e sensoriale fuori dal comune e che ha a che fare con la bellezza.

Buon Ascolto..

La Sindrome di Stendhal – In Viaggio con la Psicologia – Spreaker Podcast

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Psicologia e Lavoro: Il benessere dei lavoratori

“Uno dei sintomi dell’arrivo di un esaurimento nervoso è la convinzione che il proprio lavoro sia tremendamente imponente. Se fossi un medico, prescriverei una vacanza a tutti i pazienti che considerano importante il loro lavoro.”
Bertrand Russell

Tutti i lavoratori hanno diritto al proprio benessere psicologico e al proprio benessere fisico.

Il benessere di un lavoratore passa necessariamente da condizioni di lavoro migliori.

Un lavoratore rispettato e considerato dal suo superiore, renderà di più.

Il lavoro di un lavoratore non deve essere mortificato, ma sempre valorizzato.

Un lavoratore ben pagato avrà meno preoccupazioni e si sentirà più valorizzato, la sua autostima migliorerà e affronterà le ore di lavoro con un umore più alto.

Un lavoratore motivato, apprezzato e valorizzato renderà il doppio o il triplo.

Troppe ore di lavoro non servono a nulla, si rischia solo di peggiorare le performance del lavoratore. Un lavoratore stanco renderà molto meno di un lavoratore riposato.

Un lavoratore stremato di lavoro farà molti più errori e rischierà molto di più un infortunio sul lavoro. Spesso le morti sul lavoro sono legate a condizioni di lavoro estreme: orari di lavoro esasperati, mancanza di strumenti per la sicurezza sul lavoro, mancanza di una adeguata competenza e mancanza di formazione sulla sicurezza.

Un lavoratore con più ore disponibili da dedicare alla propria vita privata e familiare, lavorerà meglio e renderà di più.

I contratti di lavoro precari e senza diritti (ferie, permessi, malattie, straordinari pagati, tredicesime..), deprimono i lavoratori, in particolari i giovani, perché l’impossibilità di autodeterminazione, di una possibile visione futura, di una indipendenza definitiva, di prospettive personali, non motiva per nulla il lavoratore a rendere al meglio. Ciò ricade sulla professionalità di un particolare lavoro e sui possibili risultati aziendali. Questo significa che il contratto di un precario, può far risparmiare il datore di lavoro, ma la qualità del servizio o del prodotto dell’azienda con il tempo ne risentirà in negativo.

La precarietà dei molti contratti (convenienti) e l’ovvia inefficienza dei “lavoratori temporanei e sfruttati” inevitabilmente ricadrà a valanga sul lavoro dei pochi contratti stabili, che subiranno il peso delle mancanze e dell’inefficienza dei molti.

Alla luce di queste brevi considerazioni (se ne potrebbero fare molte altre) basate su decenni di studio della psicologia del lavoro e del benessere psicologico del lavoratore sul luogo di lavoro, mi sembra opportuno chiederci:

Cosa si sta facendo veramente per migliorare le condizioni lavoro dei lavoratori?

Cosa si sta facendo per evitare le troppe morti sul lavoro?

“Il lavoro è la chiave per la serenità delle persone. Nel lavoro le famiglie ritrovano l’opportunità di costruire un futuro. Nel lavoro l’umano può ritrovare la propria dignità.

Anima e sangue è ciò che tanti lavoratori mettono nel lavoro.

Sangue e anima è il lavoro degli ultimi, di quelli sfruttati, di quelli dimenticati, di quelli che facciamo finta di non vedere..”

Lavoro – ilpensierononlineare – dott. Gennaro Rinaldi

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Il corpo che ho, il corpo che sono

La riflessione odierna nasce come una sorta di brainstorming avvenuto all’interno dei miei pensieri; una partitella di calcio, qualcosa di leggero da venerdì sera dove amici quarantenni sfidano la sorte (magari qualche incipit di infarto), atteggiandosi a K’varatskhelia della situazione.

Per tornare sulla via del pensiero (una strada mai troppo dritta), mi sono soffermata su un punto interessate di una certa questione: cosa è il corpo nella malattia (psichica)?

Il soggetto si trova a dover fare i conti con qualcosa quando l’IO si ammala (ricordiamo che l’IO si trova a mediare i conflitti esistenti tra l’ES1 sede delle pulsioni che cercano disperatamente di uscire e il SUPER-IO2 castrante e pieno di divieti che replica con i suoi NO!). L’IO3 -infatti- gestisce in un certo senso, i meccanismi di difesa che devono proteggerlo.

Ciascun soggetto non è un contenitore privo di una certa storia; veniamo infatti al mondo inscritti già in un certo lignaggio; in una data famiglia che già prima della nostra venuta al mondo ha cominciato a scrivere la nostra storia (a tal proposito cito l’importanza della fantasia4 che precede la reale venuta al mondo di un bambino: come sarà? a chi somiglierà? cosa farà da grande?)

Questa storia che ci precede non va necessariamente seguita; il racconto che ci precede è un tracciato di sabbia che può essere deviato dal suo percorso originale. Il soggetto però nasce in un paradosso poiché si presenta al mondo non finito ma incompiuto e semivuoto essendo egli sottoposto all’influenza delle proiezioni genitoriali. Tali proiezioni sono significanti genitoriali, quelle idee, opinioni e soprattutto fantasie che pur rappresentando il soggetto nel mondo, lo rendono vuoto.

Ora, il significante che rappresenta il soggetto presso un altro significante (quello della cultura dell’Altro paterno, del sapere da cui dipende la vita del soggetto), riguarda anche ciò che definisce la malattia e la salute del soggetto stesso e questo determinismo derivato dai significanti dell’Altro genitoriale non è biologico-organicistico, ma linguistico, ovvero è il linguaggio la dannazione del soggetto, la sua condanna ma anche la sua vitalità: si potrebbe pertanto dire che l’uomo strutturalmente è patologico (ovvero sofferente) poiché affetto da passioni che lo indicano come mancante ab-origine; il suo essere sarà dunque sempre mancante di qualcosa portandolo a dipendere necessariamente dall’Altro ma questa dipendenza necessaria può essere non tollerata o mal sopportata dal soggetto e dunque quest’ultimo può organizzare, anche senza rendersene conto, risposte che hanno a che fare con la malattia o anche con la resistenza alla cura dell’Altro perché l’Altro gli fa sentire in qualche modo il peso di queste sue cure e lo riporta al determinismo iniziale.  

La potenza del significante dell’Altro cela pertanto un potere che esercita la propria influenza sul corpo; quel corpo marchiato (come dicevo in precedenza) dalla nascita quando l’infans è inscritto in quella specifica tradizione familiare. Questa tradizione familiare che si imprime sul corpo dell’infans gli insegnerà il piacere ma anche il modo di vivere il dolore.

C’è un significante che nella storia del soggetto umano ha determinato più di ogni altro la vita del soggetto stesso, un significante che fa della potenza della scrittura del segno sul corpo la sua funzione, tanto che si mette al servizio di tutti gli altri significanti. Questo significante ha una funzione precisa, quella di ascrivere al soggetto un limite detto da Freud principio di realtà, realtà entro cui il soggetto deve muoversi in quanto ne è obbligato; questo significante speciale e potente si chiama Super-Io ed è il significante della Legge dell’Altro genitoriale.

Il corpo che ho diviene allora un luogo ben specifico ed è l’Altro ad avermi concesso la sua mappa: precetti, regole, gusti. Non a caso nelle famiglie disfunzionali in cui il paziente designato è stato eletto membro portatore del sintomo, la mappa corporea scelta per lui sarà per esempio: tu sei (e sarai) ansioso; tu sei (e sarai) iperattivo; tu sei (e sarai) depresso.

Allora se nella parola il soggetto si ammala, è nella parola che i nodi psicopatologici possono trovare sede di accoglienza e disvelamento. Togliere i veli non è azione semplice, uno squarcio, un buco o una ferita rischiano crepe traumatiche di difficile elaborazione. E’ necessario un lavoro chirurgico e meticoloso

“Doc è stato strano togliere tutti i vestiti che portavo sulle spalle. Non sono mai stata a mio agio nuda; ti ricordi quando sono venuta qui la prima volta? Quanta roba che indossavo -ride-

Guardo con tenerezza quella che ero all’inizio del percorso, non mi manca né mi manco. Sono certa di essermi trovata, di aver capito chi sono. Sono fiera del mio corpo, delle parole che finalmente posso pronunciare senza avere paura di offendere qualcuno. Mi sono grata per non aver ceduto e per aver avuto così tanta paura e ti sono grata perché la tua perseveranza mi ha insegnato molto. Soprattutto a non temere la mia nudità d’animo”.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

1Agisce secondo il principio di piacere

2Coscienza (obblighi morali e di condotta) e Ideale dell’IO (modello a cui l’IO vuole aderire senza raggiungerlo mai; concetto controverso impastato con il SUPER-IO)

3Agisce secondo il principio di realtà

4Il termine fantasia ha in psicoanalisi connotazione ben specifica. Il suo significato è lontano da quello che viene comunemente dato al termine. Chi scrive si riserva, in un prossimo contenuto, di approfondire l’argomento

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Incidenza dei DCA nella fascia d’età dell’infanzia/tarda adolescenza PODCAST

Nell’episodio odierno condivido con voi uno stralcio di un lavoro che concerne i Disturbi del Comportamento Alimentare. Nel 2023 ho completato la stesura di un testo che analizza i Disturbi del Comportamento Alimentare andando ad analizzare anche il fenomeno social del Mukbang. Oggi ci soffermeremo in particolare sui DCA nell’infanzia e tarda adolescenza.*

Consiglio di ascoltare il podcast fino alla fine poiché ci sarà un interessante spunto di riflessione e condivisione che mi piacerebbe poter ampliare insieme.
Buon viaggio e buon ascolto. 

*Giuseppina Simona Di Maio, “Mangerò per il tuo piacere: psicopatologia e disturbi del comportamento alimentare nell’epoca social”, Caserta, 2023

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

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Yes or No?

Un rombo di baklava pregno di miele.

Un bicchierino di amaro, very amaro.

La curva perfetta della tua schiena e i suoi nei: i miei pianeti.

Il mio dito li insegue; disegna la sua costellazione madre.

G.

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Ali di moscerino

E’ pomeriggio i fiori primaverili hanno cominciato la loro folle corsa, ondeggiano e si lasciano trasportare alternando il proprio gioco a quello del viscoso polline. Ragnatele bianche inglobano -come miele corposo- la zanzariera dello studio; dalle crepe del perfetto rettangolino che le asole del tessuto contenitivo hanno creato, noto un minuscolo moscerino che cerca invano di farsi strada. Ci prova -è forte- persiste ma la trama contenitiva è rigida, è pensata per rigettare, per tenere lontana da sé ; al piccolo moscerino non resta che spogliarsi della pesante armatura di Eracle e disfattosi delle dodici fatiche, a colpi di infinitesimali ali, virare via.

Il paziente che è appena andato via è un uomo di circa 50 anni; è perso in una esistenza che lo appartiene sempre meno. Sposato, tre figlie, un cane e un gatto, un lavoro di un certo livello. L’uomo continua ad allacciare sporadici rapporti più o meno amicali, sessuali, sensuali, goliardici a cui non attribuisce valore ma che nonostante ciò continuano a descrivere il suo presente. L’uomo è molto attivo nel sociale ed è ben visto da tutta la rete sociale che lo circonda ma il problema che comincia a sollevare (che poi è uno dei motivi che lo hanno spinto a chiedere un supporto psicologico), è proprio che questa rete comincia ad inglobarlo fino quasi a soffocarlo. Viene chiesto lui (a suo dire) di essere quel padre di famiglia solido e saldo; il marito perfetto lindo come la camicia bianca che indossa tutte le mattine. L’uomo tuttavia comincia a vacillare; ha bisogno di sentirsi macchiato perché sente che le richieste poste lui sono troppe e non lo descrivono più; tuttavia lui non riesce (non può? non vuole?) a prendere una decisone che sia netta e precisa: voglio la storia che ho oppure devo cominciare una nuova narrazione?

In questa scissione -domanda incessante di un IO che non è mai padrone in casa sua- l’uomo si ammala.

E. donna di quasi quarant’anni è mamma di due bambini. E’ laureata ma ha avuto una carriera piuttosto frammentata; da sempre insicura e indecisa sulla propria esistenza si è trovata a scegliere qualcosa che non avrebbe mai immaginato: la sicurezza della vita domestica. E. comincia però ad un certo punto a non sentirsi calata nell’immagine di mamma precisa e amorevole che gli altri vedono in lei. La donna ha una sorta di velo che la ricopre; un velo che mi ricorda a tratti la resina impantanata, come si ritrova, nel suo processo di polimerizzazione. Ma gli anni sono pochi e il processo è lento.

Si arresta.

E. cede alla depressione, sospende fino quasi a bloccare le funzioni vitali. L’IO scopre che non può chiedere né osare domandare perché capisce che le chiavi d’ingresso non gli appartengono e nasce una lotta in cui prova a mediare, in cui cerca di sedare l’attacco che l’ES fattosi Mike Tyson comincia a scagliare; è proprio l’ES che bussa, crea terremoti alla ricerca del piacere perduto ma ecco che il SUPER-IO emette il suo categorico NO! Censura ogni piccolo piacere che cerca di emergere.

L’uomo e la donna ci provano, come il piccolo moscerino Eracle.

Ci troviamo tutti, prima o poi, a dover vivere delle personalissime fatiche; lotte immani tra Istanze psichiche che faticano a restare in equilibrio. Siamo non di rado quelle piccole ali che il moscerino ha battuto a fatica; quella fatica io l’ho vista e ho deciso di averne cura.

Ho alzato la zanzariera, quel pomeriggio, e sfidando il surplus di polline ho lasciato entrare quel piccolo moscerino.

Il percorso psicologico è questo. Un jolly esterno; qualcuno che comprenda la fatica, che la vede anche quando la maggior parte delle persone la reputa inutile sforzo.

La psicologia premia il coraggio, le scelte azzardate, è persistenza nella fatica con consapevolezza di saper quando allentare la corsa perché insistere non è una soluzione.

L’uomo che so seguito e la signora E., hanno trovato l’equilibrio compiendo scelte che a molti sono parse radicali e sbagliate.

Hanno trovato il modo di spalancare la finestra e prendere aria; volano -ora- molto dentro di sé, tanto ancora nella vita che li circonda. Non sono più membri di una folla qualunque, stereotipata immagine di una stabile e seriale realtà.

Sono picchi di colore nel marasma dell’indistinto, chiedono e domandano e ora conoscono le risposte.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

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La salute mentale è (davvero) un diritto?

Con il #viaggio di oggi intendo porre l’attenzione sulla #salute #mentale dei nostri #adolescenti.
Sono l’#OMS e l’#UNICEF a farci riflettere questa volta, complice un convegno che si terrà il 18 Aprile 2024 a Bolzano.

Come stanno i nostri ragazzi?

Gli #adolescenti sanno davvero come si sentono? Quali le principali cause di #morte nei giovani?

Un piccolo accenno anche alla mia esperienza clinica.
Buon viaggio e buon ascolto!

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

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Jacques Lacan

Il 13 aprile 1901 nacque a Parigi lo psicoanalista francese Jacques Lacan. Alla fine degli anni cinquanta dello scorso secolo diventò uno dei maggiori esponenti della corrente strutturalista della Psicoanalisi. Lo strutturalismo, in contrasto con l’umanesimo, afferma la priorità del sistema sull’uomo: “le strutture del linguaggio, della società, dell’organizzazione economica e politica, precedono e determinano le scelte dell’individuo“. L’individuo non ne è per questo totalmente condizionato, ma entro i limiti del contesto strutturale vengono delimitate le proprie possibilità trasformative.

Lacan si riapproprierà anche del discorso freudiano affermando: “ciò che è evidente a chiunque si prenda la briga di aprire un’opera di Freud: a qualunque livello, quando compie un’analisi dell’inconscio, Freud fa sempre un’analisi di tipo linguistico, del resto egli afferma che “l’inconscio è strutturato come un linguaggio” *.

L’uomo secondo Lacan è pensato e determinato dal linguaggio e quindi è determinato dall’inconscio.

Per Lacan il soggetto non è un dato ma una “costruzione” in tappe. Si parte dallo stadio allo specchio.

“.. lo stadio allo specchio è un dramma la cui spinta interna si precipita dall’insufficienza all’anticipazione – e che per il soggetto, persone nell’inganno dell’identificazione spaziale , macchina fantasmi che si succedono da un’immagine frammentata del corpo ad una forma, che chiameremo ortopedica, della sua totalità, – ed infine all’assunzione dell’armatura di un’identità alienante che ne segnerà con la sua rigida struttura tutto lo sviluppo mentale.”

Scritti – Lo stadio allo specchio – Jacques Lacan

Vi ripropongo una vecchia puntata del nostro podcast “In Viaggio con la Psicologia” dove parlo del processo di Soggettivazione di Lacan.

Buon Ascolto!

L’identificazione – il processo di Soggetivazione secondo Jaques Lacan –

L’identificazione – il processo di Soggetivazione secondo Jaques Lacan

  • “Storia della Psicoanalisi”, Silvia Vegetti Finzi (Milano,2008)
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Siamo tutti nella stessa barca – Psicologia e Storie di Immigrazione – PODCAST

Questo episodio sarà dedicato ad un ambito della psicologia emergente, ma che ha a che fare con qualcosa di molto antico, un fenomeno umano, sociale che appartiene alla storia dell’umano.

Parleremo dell’immigrazione e degli aspetti psicologici ed emotivi che contraddistinguono questa esperienza trasversale ma profondamente umana.
E parleremo di questo attraverso un racconto, la storia di un ragazzo che ce l’ha fatta.

Le storie di migrazione sono quasi sempre storie di rinunce, di sofferenze, di perdite, di rotture.

Il migrante è alle prese con esperienze più o meno traumatiche, molto personali, singolari, che lo accompagnano, per tutto il suo viaggio di allontanamento dalla propria terra natia.

Lavoro ormai da circa 8 anni nel campo della Psicologia della migrazione, a contatto diretto con i vissuti dei migranti che arrivano nei centri di accoglienza del mio territorio e posso dire che a differenza di ciò che spesso viene raccontato, in maniera piuttosto insufficiente e con poca conoscenza, sono pochissimi, ma veramente molto pochi, i migranti che arrivano in Europa con la consapevolezza della scelta e della progettazione di una migrazione voluta realmente.

Buon Ascolto!

Psicologia e Storie di Migrazione – In Viaggio con la Psicologia – Spreaker Podcast

Psicologia e Storie di Migrazione – In Viaggio con la Psicologia – Spotify Podcast

 #etnopsicologia#ilpensierononlineare#immigrazione#immigrazionepodcast#inviaggioconlapsicologia#podcast#podcastpsicologia#podcastshow#psicologia#psicologiaimmigrazione

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La vita breve del qui ed ora

La riflessione che pongo al lettore trae spunto da tutta una serie di colloqui clinici effettuati con giovani che, nel linguaggio comune che appare spesso come un contenitore privo del suo stesso contenuto, sono definiti “giovani ad alto rischio/ provenienti da contesti svantaggiati/delinquenti”. Ho deciso di portare alla luce un punto che perde la sua stessa esistenza restando imbrigliato tra le maglie di un significante la cui moda, ha implicitamente arrestato la genesi del significato di cui si fa portatore. Il risultato è stata la stasi o la completa assenza dell’immaginazione e -come a breve il lettore vedrà- della vita stessa.

Pensar(si)/Esser(si): se stessi al centro del mondo.

Un certo filone noto come Mindfulness con tutto il suo corredato di “pratiche” di cui si fa portatore, ha cominciato a diffondere largamente il concetto di qui ed ora (Hic et nunc) focalizzando l’attenzione sulla consapevolezza del momento presente, dell’essere costantemente in relazione con se stessi (con le proprie emozioni, pensieri, per fare alcuni esempi) senza restare imbrigliati tra le faticose maglie del passato e del futuro. Il focus sei tu, nel momento presente: come ti senti adesso? La risposta sarà figlia di un atteggiamento verso di sé non giudicante; per alcuni indirizzi si parla di essere compassionevoli verso di sé e così via (il tutto dipende un po’ dalle varie filosofie orientaleggianti di riferimento).

Giovanni (nome di fantasia) ha 17 anni, sopravvissuto per puro caso a diverse situazioni delinquenziali parla in maniera spavalda della sua lunga vita; avere 17 anni e recare sul corpo svariate cicatrici di operazioni più o meno gravi ti rende grande agli occhi di quelli che vedono in te uno forte, potente, che ce la fa e che -ora- è un re che cammina per le strade del suo quartiere con il viso alto, gli occhi serrati pronti a sferrare un colpo.

“Dottorè Io mo’ esisto sono il re qua; comando io la gente quando mi vede abbassa la testa perché lo sanno che se parlano qua salta qualcuno. Il futuro? E’ che è il futuro? Guardate il tatuaggio nuovo che tengo; su TikTok una (bona) parlava e sto fatto del momento presente a me mi piace sta storia. Stavo pensando io non voglio morire vecchio, non voglio essere vecchio, che schifo.. a fa quella fine dentro ai letti d’ospedale… Noo… Io mo sto qua e tengo tutto sotto le mani mie! Io come mi penso da grande? Come mi immagino con una fotografia tra qualche anno? Dottorè la foto mia che immagino è quella del Camposanto.. Io mo’ voglio tutto e subito, se lo penso vuol dire che lo voglio e se lo voglio la avrò, Il futuro non esiste ci sta solo il presente”1

Viviamo costantemente immersi in quella che René Kaës, definisce “cultura dell’urgenza”; una cultura dell’urgenza e immediatezza che ha trasformato la temporalità del mondo post-moderno. Il rapporto con il tempo privilegia l’incontro sincronico, il qui ed ora: il tempo corto prevale sul tempo lungo. Il legame è mantenuto nell’attuale, sfugge alla storia poiché la certezza che l’avvenire è indecidibile è la sola certezza2.

Il qui ed ora del tempo corto, senza legami: “Io ci sono, adesso”. la spasmodica ricerca del tempo presente si traduce nel frenetico utilizzo (per fare un esempio) di tecnologie che propongono ormai sempre più l’uso del tempo corto su quello lungo3

L’idea di aderire alla sola visione di sé come esistente nel solo tempo presente rischia paradossalmente di deresponsabilizzare il soggetto dalla sua stessa esistenza correndo il rischio di renderlo spettatore e non più attore della sua stessa vita. La nostra storia è ricca di particolari (persone, oggetti, soggetti, luoghi ed eventi). Una storia senza tempi è impossibile da scrivere e anche quando scriviamo nel tempo presente, non esiste solo questo tempo poiché lo snodo del racconto è già esso stesso spalmato su una lingua temporale che già per il solo fatto di essere raccontata si è spostata all’interno di un tempo che non è più quello inziale.

Immaginarsi all’interno dei tempi implica però una piccola quota di sofferenza, perché dico questo?

Muoversi lungo le linee temporali comporta ammettere di essere esseri mancanti (un grande problema per l’umano). Devo valutare l’ipotesi dell’errore e ammettere di aver sbagliato (ho sbagliato partner, lavoro?); devo esser capace di sostenere il fallimento, la paura (della perdita, malattia e morte), devo accettare che cambierò (peso, aspetto, gusti, idee?) e che io in realtà, per quanto sia convito di avere le redini della mia stessa vita, tutto sommato il controllo non posso averlo più di tanto.

Ammettere di non poter detenere il controllo rende liberi.

Il regalo più grande che possiamo farci è l’immaginazione e la fantasia che galleggia come una boa in mare aperto che ogni tanto va alla deriva e poi resta ancorata al suo stesso punto.

Pensarsi nel tempo scioglie i nodi; pensarsi però non vuol dire giudicarsi o farsi fardello di un tempo straordinario perché il futuro non essendo ancora stato e non potendo sapere se sarà, apre alla libertà.

Il non conosciuto -lo sconosciuto- diviene noto e quindi conosciuto quando è incontrato. Per conoscere te stesso nel presente devi pensarti, giocando e ridendo di te, nel futuro gettando un piccolo sguardo in quel tempo che ormai è già stato, che è il passato.

Giovanni un futuro non l’ha avuto. Cosa resta? Il viso controluce e quella peluria che faceva intravedere un bambino rimasto intrappolato non nella porta di Narnia, ma nelle grate delle porte di un quartiere che non ha mai visto il sole ma il freddo, il buio e la chiusura di una società intera che ha pensato al posto di Giovanni.

E’ questa stessa società che nega il futuro ai Giovanni; che impedisce a questi ragazzi di pensarsi e immaginarsi perché tu non puoi farlo.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

1Colloquio tradotto in italiano tenuto in lingua napoletana

2 Cfr., Kaës R., (2013). Il Malessere (Prima Edizione ed.) (M. Sommantico, A cura di, & M. Sommantico, Trad) Roma: Borla.

3Cfr.,Di Maio Giuseppina Simona, “Malessere e distruttività in adolescenza” “Malaise and destructiveness in adolescence”, 2018, Caserta.

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Chi sono.

Qualche contatto e news da condividere.

Mi chiamo Giuseppina Simona Di Maio, sono Psicologa Clinica, (Albo degli Psicologi della Campania n.9767) Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio; Esperta in adolescenza, crisi e disagio adolescenziale.

Lavoro in particolar modo con bambini e adolescenti perché credo fortemente nell’importanza di offrire un sostegno psicologico a queste fasce d’età che sono particolarmente sensibili alla sofferenza psicologica e che vivono -spesso- la difficoltà nel poter chiedere aiuto.

Bambini e adolescenti soffrono ma vivono l’incapacità di poter verbalizzare la loro sofferenza psichica; non avendo pertanto possibilità (vista la delicata fase del ciclo di vita che stanno affrontando) di poter dire come si sentono e cosa provano, si trovano inglobati in un profondo malessere che appare noi in forma di disturbi d’ansia, panico, pavor nocturnus -terrori notturni- (nei bambini), difficoltà scolastiche, difficoltà nel sonno, alimentari o relazionali.

Con il mio lavoro intendo offrire un’isola del tempo (lo spazio dedicato ai nostri colloqui) che sia però senza tempo; dove non esiste giudizio o pregiudizio e dove il bambino, l’adolescente e il giovane adulto possa sentirsi libero di esprimere la vastità e la ricchezza del proprio mondo interno.

Ho frequentato il Conservatorio e conseguito la licenza in pianoforte. Lo studio della musica, e quindi del suono e del ritmo (i suoi due elementi fondanti), mi ha fin da subito mostrato l’importanza delle parole (del loro uso e del loro abuso), giacché le parole stesse altro non sono che produzioni sonore e ritmiche. Il legame sempre presente tra ritmo e corpo (basti pensare a tutti quei gesti e movimenti che accompagnano la nostra vita), mi ha consentito nel tempo di comprenderne l’importanza, spingendomi sempre più verso la comprensione di come questo vive (o non vive) il suo ambiente circostante.

Tutto ciò ha confluito nella convinzione che un’integrazione tra il sapere psicologico e quello musicale, sia non solo possibile, ma soprattutto profondamente attuale.

Dove puoi trovarmi?

Svolgo regolarmente la mia attività come libera professionista in modalità autonoma presso Caserta, Napoli, Casoria e Casavatore

Collaboro con Studio Medico SileneFuorigrottahttps://www.studiosilene.it/

Puoi trovarmi presso Fisiomaione (Studio medico a Casavatore)

Se preferisci puoi prenotare la tua consulenza psicologica tramite il portale Miodottorehttps://www.miodottore.it/giuseppina-simona-di-maio/psicologo-psicologo-clinico/casavatore

Svolgo la mia attività anche da remoto tramite l’ausilio di piattaforme Skype e Whatsapp

Per ulteriori Info:

gs.dimaio@hotmail.it

g_dimaio@psypec.it

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Pillole di Psicologia – L’introiezione degli insegnamenti e dei valori morali

Come vengono introiettati gli insegnamenti e i valori morali dal bambino?

In questa pillola di Psicologia, per rispondere a questa domanda ci facciamo aiutare da J. Lacan.

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#psicologia #psicoterapia #ilpensierononlineare #pilloledipsicologia #psicologo #psicoterapeuta #salutementale #benesserepsicologico

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi
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L’Apprendimento in Psicologia – Podcast

“Apprendere a pensare; nelle nostre scuole non si sa più quel che significhi.”

Friedrich Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, 1888

Questo episodio sarà dedicato ad un processo psichico determinante per ognuno di noi, perché consente una modificazione durevole del comportamento e avviene attraverso l’esperienza diretta.


Le modificazioni che apporta, questo processo psichico, diventeranno poi fondamentali per lo sviluppo cognitivo, ma non solo, altre funzioni psichiche ne saranno poi in qualche modo condizionate nel corso del ciclo di vita di una persona.
Parleremo dell’apprendimento.

Buon Ascolto!

L’apprendimento in Psicologia – In Viaggio con la Psicologia – Podcast Spreaker

L’apprendimento in Psicologia – In Viaggio con la Psicologia – Spotify Podcast
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Voce

Una voce riecheggia e rimbomba con la sua eco.

Suadente sottoveste sul mio timpano; maliziosa trasparenza di innocente ricerca del proibito.

Panatura croccante, nuvola leggera come tempura rivesti il mio condotto uditivo.

Si crepa la staffa e arrossisce la coclea quando le vibrazioni calde scoppiettano come bolle di bagnoschiuma al borotalco, infantile aroma frapposto al cuoio lavorato a mano.

Sento il mare e divento conchiglia vuota.

Il tuo suono sa di chiara d’uovo: ti fai montare.

Sai di pino secolare bagnato.

Sono sale.

Entra! (Voce).

G.

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Buon volo.

“Come possiamo sapere se abbiamo compreso il senso di una musica? Dall’emozione che ci procura. È un criterio soggettivo, eppure è l’unico che funziona veramente”

Maurizio Pollini, 5 Gennaio 1942- 23 Marzo 2024.

G.

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Marea

Ho sempre amato gli animi gentili, quelli poco rumorosi, lenti a tratti silenziosi.

Ho sempre amato l’anima sensibile, quella che sussurra e sussulta; quella che batte al suono di 10 gr esatti quando si veste da piccolo e comune scricciolo.

L’anima così tanto leggera da portare un suo peso specifico esorbitante, quello dell’apnea da tachicardia ansiosa; l’anima che si fa fuoco di fornello sul volto quando si accende la vergogna.

Mi piacciono gli animi gentili che sanno cadere vittima dell’indecisione che si perdono tra i pensieri e diventano inafferrabili -introvabili- persi tra le ossa parietali che diventano planisferi senza confine alcuno.

Mi piace chi scrive con la penna e porta una grafia incomprensibile, ingestibile pure a sé stessa, che non cade vittima della buona forma del gesto grafico che sente la libertà e vaga come l’ES a briglie sciolte.

Amo chi si trascina come la marea lentamente.. lentamente.. sale piano.. piano.. poi boom! lì! Rigonfio, gonfio e pieno della sua stessa essenza che emerge prepotentemente con vigore e tu: in estasi..

Bagnata dall’essenza della feconda marea.

G.

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Il gioco e la sua straordinaria funzione

Nel viaggio di oggi andremo alla scoperta del gioco.

Il gioco ha una funzione così importante (importante per l’apprendimento, per lo sviluppo della comunicazione, per il consolidamento delle abilità socio-emotive, per fare alcuni esempi), che anche nel mondo degli scimpanzè, le mamme continuano a giocare con i propri cuccioli anche in condizioni avverse.

Conosceremo quindi una interessantissima ricerca che ha come focus la relazione madre-figlio in particolar modo nel mondo degli scimpanzè dove le mamme non smettono di giocare con i propri cuccioli nemmeno quando le condizioni si fanno particolarmente difficili per la sopravvivenza.

Mettiti comodo, allaccia le cinture e parti con me per una nuova tratta di in viaggio con la psicologia.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

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Cosa pensava S. Freud della Guerra?

Cosa pensava Sigmud Freud della Guerra?

Nel video vi riporto un estratto di uno scritto di Freud del 1915, una riflessione sulla guerra appena scoppiata in Europa in quegli anni.

La riflessione di Freud è sullo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ma nonostante la sua riflessione abbia poco più di 100 anni, è molto attuale.

Buona visione!

Cosa pensava S. Freud della Guerra? – ilpensierononlineare YouTube Channel

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#psicologia#ilpensierononlineare#guerra

NO WAR!

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Felicità

Oggi 20 marzo è la giornata internazionale della felicità.

La felicità è un’emozione, uno stato d’animo positivo, che presuppone uno stato personale di soddisfazione, pienezza, benessere, gratificazione, tranquillità.

La felicità è un sentimento ricercato, ambito, rincorso. Spesso la felicità diventa un concetto chimerico, qualcosa di effimero, irraggiungibile, impossibile, quando è confuso con ciò che la società ci trasmette come modello rappresentativo della vera felicità.

Photo by Designecologist on Pexels.com

La felicità è un sentimento ed un’emozione oggettivamente riscontrabile in alcuni eventi e situazioni sociali, dove gruppi di persone possono riconoscere un sentimento di felicità condiviso. Per questo motivo, come per altre emozioni, ma forse un po’ di più, la felicità è un’emozione “facilmente trasmissibile“, perché un sorriso di gioia può contagiare chi abbiamo dinnanzi a noi e può sconvolgere in positivo il sentimento di un gruppo di persone.

Ma la felicità è anche e soprattutto un sentimento profondamente soggettivo, perché la felicità la possiamo ritrovare in “pezzetti” di tempo e di spazio personalissimi, per nulla confondibili con quei modelli di felicità artificiali che ci vengono quotidianamente imposti.

Piuttosto che rincorrere pezzi di felicità artefatti, freddi e rigidi, impostati in modelli irragionevoli e irraggiungibili; ascoltiamoci e ricerchiamo dentro di noi o attorno a noi quei pezzi di felicità autentici.

La felicità autentica è quella ci riempie.

La felicità ha una caratteristica eccezionale: ne basta poca. Bastano pochi momenti, pochi attimi, pochi minuti, per riempirci e saziarci.

“Quando la felicità non la trovi, cercala dentro”

Enzo Avitabile
Gioa – Tommaso Primo
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Ore al cioccolato

“La vita è come una scatola di cioccolatini… non sai mai quale ti capita.”

Dal film Forrest Gump

Lo era davvero, nello specifico erano cioccolatini al pistacchio ricoperti di nocciole. Erano fuori produzione da anni, ormai, probabilmente fu una edizione limitata, una sciccheria pensata per quel periodo dell’anno.

Un dono semplice -gustoso- alla papilla gustativa persistente.

La piccola confezione rettangolare in cartone era rimasta per anni nella scrivania relegata a ruolo di tiara evocativa.

L’aroma delle croccanti palline fuori produzione era ancora oggi prepotente, una crema invadente strusciava maliziosamente tra i denti accarezzando le gengive massaggiate, successivamente, dalle croccanti noccioline tritate finemente. Si spaccava la noce di impasto che crepandosi, non resistendo al terremoto dell’arcata dentaria, rilasciava il sapore del dolce frutto della terra di sale.

Erano -questi- due ragazzi timidi e temerari che in un freddo e uggioso tardo pomeriggio d’inverno, giocavano con i cioccolatini.

Giocavano meno con la vita.

Ancor meno con l’amore.

(Quello era già una cosa seria).

G.

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DCA: DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

Gli ultimi dati sui DCA diffusi in occasione della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla (15 Marzo) ci consegnano un quadro allarmante: in Italia oltre 3 milioni di persone soffrono di Disturbi del Comportamento Alimentare e i primi casi si registrano addirittura all’età di 6-7 anni, numeri in costante peggioramento negli ultimi anni.

Per affrontare una problematica sempre più diffusa occorre avere una rete adeguata per la cura multidisciplinare ma serve anche una strategia di prevenzione e intercettazione precoce.

La psicologia scolastica e gli psicologi di assistenza primaria hanno una funzione cruciale in questa direzione.

Quello che non viene raccontato -spesso- oppure ciò che non vuole (per evidenti difese sociali messe in atto) essere visto è che i disturbi del comportamento alimentare hanno poco in relazione con il cibo in sé.

Il cibo diviene solo un mezzo per elicitare una sofferenza molto più nascosta e radicata nella psiche umana.

Il rapporto dell’essere umano con il cibo è qualcosa di complesso e multisfaccettato. Quelle che appaiono come semplici “pietanze tra cui scegliere” celano -a livello simbolico- una potenza che va molto oltre delle differenze in termini di gusti o scelte.
In alcune persone può infatti accadere che la relazione funzionale con il cibo muti tanto da diventare una relazione disfunzionale.
Il cibo -infatti- è fin da subito (fin dai primi istanti della nostra vita), un potente mezzo “mediatore” tra il me e il non me, tra me e il mondo esterno; si tratta pertanto di un elemento che può fungere da aggregatore sociale o da esclusione sociale (come nel caso dell’anoressia). Abbuffarsi di cibo o all’opposto rinunciare completamente al cibo stesso, indicano condotte comportamentali che vanno molto oltre la sola relazione con la pietanza stessa.1

Non è la bellezza a voler essere raggiunta, né un corpo standard in quanto tale. Il corpo anoressico serve ad attestare l’avvenuto raggiungimento di una certa potenza che ora è lì e può essere vista da tutti “Non ho bisogno di niente io!”. Il corpo abbondante, obeso, serve a nascondere, celare sotto tanti strati protettivi un dolore che si vuole dimenticare. Il corpo bulimico soffre della sua condizione di perduta anoressia e senza sosta, in uno stato onirosimile (sognante) mangia kg di cibo per poi gettarli via, insieme al dolore che lacera e consuma come il vomito autoindotto.

Si collude facilmente con l’anoressia (basta vedere anche i programmi televisivi che girano) perché l’estrema magrezza e il piccolo così bisognoso di cure a cui richiama quel corpo, non lasciano indifferenti (nessuno sa, però, di quanto sia potente e manipolatorio il pensiero anoressico).

Non si collude per nulla con l’obesità (se mangi tanto è normale che sei grassa e fai schifo è facile.. mettiti a dieta!).

Poco, direi nulla, si sa dell’invisibile sofferenza bulimica.

I disturbi alimentari si muovono su un continuum in cui spesso difficilmente si resta in una unica fonte di sofferenza, è più facile invece, che si passi da periodi di abbuffate, a quelli di restrizione ad alternanze di abbuffate e condotte eliminatorie continue.

Per cominciare a vedere qualche cambiamento è necessario uscire dalle maglie del pensiero lineare, quello che fa sentire comodi come un pomeriggio d’inverno sul divano mentre sorseggiando un tè caldo, il nostro gatto fa le fusa. I disturbi del comportamento alimentare implicano tutti una sottesa estrema sofferenza psichica; non sono capricci né standard da voler raggiungere; non sono isterismi, voglia di apparire, ingordigia o poca resistenza alle tentazioni.

Possono essere reviviscenze traumatiche, lutti inelaborati, violenze fisiche nascoste, violenze psicologiche sottili e taglienti; crateri di dolore che restano impantanati tra il detto e il non detto. Buchi da tappare come nel caso dell’obesità e della bulimia oppure voragini di vuoto come nel caso dell’anoressia.

Non è semplice fame d’amore.

E’ l’opposto.

L’abolizione del desiderio.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

1 Giuseppina Simona Di Maio, “Mangerò per il tuo piacere: psicopatologia e disturbi del comportamento alimentare nell’epoca social”, p. 6., 2022.

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Cleptomania – PODCAST

In questo episodio ci occuperemo di una psicopatologia mal tollerata, perchè spesso confusa con un agito che è socialmente considerato come un reato, di quelli anche più odiosi, il furto.

La cleptomania non è un disturbo comune, si stima che circa 6 persone su mille ne soffrono e circa il 5 % dei taccheggiatori abituali.

I cleptomani agiscono sotto l’ “effetto” di un impulso incontrollabile.

Secondo il DSM5 la Cleptomania ha una caratteristica fondamentale che è la ricorrente incapacità di controllare l’impulso a rubare oggetti, anche se non vi è un particolare interesse per quell’oggetto, che può avere anche pochissimo valore economico. Quindi non c’è nessun reale interesse per l’oggetto rubato.

Altro aspetto che lo caratterizza e che lo differenzia dal reato di furto è che l’oggetto rubato spesso viene buttato, accumulato o dato via.

Il cleptomane è consapevole che il suo gesto può portare a conseguenze legali, ma nonostante ciò non riesce a controllare la sensazione di tensione che avverte prima del furto, che porta ad una sensazione di piacere, gratificazione e sollievo subito dopo averlo commesso.

Ma questa sensazione, viene poi sostituita da senso di colpa e depressione per il ciò che è accaduto e per l’incapacità a controllare l’impulso.

Buon Ascolto..

Cleptomania – In Viaggio con la Psicologia – Spreaker Podcast

Cleptomania – In Viaggio con la Psicologia – Spotify
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Genitori e figli: genitori confusi e figli smarriti. PODCAST

Il viaggio di oggi ci porta tra le stanze della genitorialità.

Rifletteremo insieme sulla difficoltà di essere genitore, nella contemporaneità così complessa e articolata.

Come si sentono i genitori, oggi? E come stanno i nostri figli?

Allaccia le cinture e parti insieme a me per la nuova tratta di in viaggio con la psicologia!

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
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Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

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Brevi considerazioni a margine di un colloquio

Nell’ultimo periodo storico la psicoanalisi ha ritrovato (in special modo con l’opera di René Kaës), l’interesse verso le dinamiche relazionali legate al fraterno. Per lungo tempo -infatti- l’interesse primario circa i (o il, mi verrebbe da dire) complesso, era legato all’Edipo. L’idea di riconsiderare le dinamiche esistenti tra fratelli nasce, molto probabilmente, dalla nuova struttura che la famiglia ha -nella contemporaneità- assunto scivolando e accompagnandosi ai grandi cambiamenti sociali, economici e culturali.

Secondo Kaës, considerare il complesso fraterno non esclude l’Edipo ma anzi, entrambi i complessi si compenetrano incrociandosi. Tale incrocio comporta il permanere della propria connotazione specifica portando i due complessi ad avere (entrambi) un ruolo nella costruzione della personalità, delle difese, delle identificazioni, degli oggetti interni arrivando alla costruzione dei legami oggettuali e delle relazioni gruppali (pensiamo un po’ a Antigone, Eteocle e Polinice, figli e fratelli di Edipo).

Kaës comunque distingue tra: complesso fraterno, legame fraterno e imago fraterna.

In linea generale un complesso, in psicoanalisi, indica un insieme di rappresentazioni e investimenti inconsci riguardanti fantasmi e relazioni intersoggettive che vedono il soggetto in rapporto ad altri soggetti (o oggetti). È caratterizzato dalla conflittualità, derivante da forze psichiche opposte e inconciliabili, e la risoluzione di tale conflittualità avviene mediante formazioni di compromesso: sogni, lapsus, sintomi nevrotici o psicotici.

Nel complesso fraterno, così come riferito da Kaës, riferiamo all’ambivalenza, la rivalità, l’amore narcisistico verso un altro che è riconosciuto come fratello o sorella.

L’imago è uno schema rappresentazionale interno attraverso il quale il soggetto si raffigura oggetti o personaggi (nel caso specifico il fratello o la sorella) che orienta lo stabilirsi di altri legami.

Il legame fraterno riguarda infine l’incontro tra i complessi dei fratelli in relazione tra loro e implica il gioco di alleanze, consce e inconsce, che mantengono tale legame.

E’ in quel preciso istante della terapia familiare che noto V. costruire il mare: “questo mare serve a congiungere i due mondi, il mio e quello di A. però.. manca questo”.

V. prende delle costruzioni che servono da muro, barriera e le mette giusto al centro del grande mare che ha costruito per unire il suo mondo con quello della sorella.

L’unione quindi viene strozzata in un punto preciso -lì- giusto al centro. Siamo unite -certo- ma non siamo sovrapposte, non siamo la stessa cosa; non siamo uguali. Ci somigliamo, abbiamo la stessa età, facciamo le stesse cose ma ho bisogno di uno spazio di separazione in cui essere.

Essere per esistere.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
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Come avviene il Plagio Psicologico? Un Caso di Cronaca Nera.

Il Punto Interrogativo è il simbolo del Bene, così come quello Esclamativo è il simbolo del Male. Quando sulla strada vi imbattete nei Punti Interrogativi, nei sacerdoti del Dubbio positivo, allora andate sicuro che sono tutte brave persone, quasi sempre tolleranti, disponibili e democratiche. Quando invece incontrate i Punti Esclamativi, i paladini delle Grandi Certezze, i puri dalla Fede incrollabile, allora mettetevi paura perché la Fede molto spesso si trasforma in violenza.

Luciano De Crescenzo – Il Dubbio

Un fatto di cronaca nera ha sconcertato l’Italia intera. La strage di Altavilla Milicia avvenuta circa due settimane fa ha sconvolto l’opinione pubblica sia per l’eccessiva efferatezza di chi ha commesso gli omicidi, sia per i misteri che avvolgono i probabili “rituali” a sfondo religioso (delirante) che fanno da sfondo all’intera vicenda.

Stando alle ultime cronache, si presume che ad aver ucciso i figli di 16 e 5 anni e moglie, sia stato il marito insieme alla figlia (che ha dichiarato di aver collaborato ai rituali, anche se forse costretta e plagiata) e due persone, un uomo ed una donna , conosciuti qualche tempo prima dalla coppia di coniugi e presunti “capi spirituali” di una presunta setta (Fratelli di dio).

Il movente degli omicidi ruoterebbe attorno alla convinzione che si volesse liberare la casa e le persone uccise, dai “demoni” che, a quanto pare, la coppia dei “Fratelli di dio” ne aveva accertato la presenza nelle stesse persone (i figli e la madre).

Chiaramente le indagini sono ancora in itinere ed è tutto ancora al vaglio degli inquirenti. Quindi nulla è ancora certo.

Ma da questi elementi ovviamente è partito un dibattito, su tutti i media, che gira attorno a domande comuni:

Come è possibile sia successa una cosa simile?

Come si può arrivare a fare cose simili?

E soprattutto, come è possibile che i figli maggiori abbiano probabilmente preso parte nei rituali sadici che hanno portato alla morte i propri familiari?

In base alle informazioni che ci sono arrivate tramite i media, possiamo in parte dare una spiegazione ipotetica a ciò che è potuto accadere, per quanto riguarda le dinamiche psicologiche e le espressioni psicopatologiche che sottendevano gli atti e i comportamenti apparentemente incomprensibili.

Innanzitutto, possiamo dire che ci sia stata, probabilmente, la commistione di diversi elementi psicopatologici, che hanno a che fare con il delirio, la paranoia, la dissociazione e il plagio e la manipolazione.

Concentriamoci però su una delle parole che spesso è venuta fuori in queste settimane: plagio psicologico. I concetti di plagio e manipolazione (anche la suggestione ha a che fare con questo), hanno a che fare con processi di influenza psicologica che possono condizionare il pensiero, le credenze e i comportamenti delle persone.

Photo by Michaela St on Pexels.com

Il plagio, nello specifico, ha a che fare con una serie di tattiche e meccanismi psicologici coercitivi che sono finalizzati a produrre un cambiamento radicale e profondo nelle credenze, nelle emozioni e negli atteggiamenti di una o più persone.

In genere (come definito anche dall’American Psychological Association) il plagio ha lo scopo di deprivare un individuo della sua libertà di pensiero e di funzionamento, in modo da poter avere un “controllo” psicologico su di esso. Un esempio di plagio possiamo osservarlo nei componenti di alcuni gruppi religiosi, nelle sette o nei prigionieri di guerra.

P. Zimbardo definì il controllo mentale come quel processo che compromette la libertà individuale o collettiva di scelta e d’azione, perché riesce a modificare e a distorcere la percezione, le motivazioni, le emozioni, i comportamenti e le credenze delle persone.

“Il controllo mentale, come viene utilizzato dalla maggior parte dei culti distruttivi, non cerca di fare altro che intralciare l’identità vera dell’individuo – comportamento, pensieri, emozioni – e ricostruirla ad immagine del leader. Lo si fa controllando rigidamente la vita fisica, intellettuale, emotiva e spirituale del membro. Unicità e creatività della persona vengono soppresse. Il controllo mentale settario è un processo sociale che incoraggia obbedienza, dipendenza e conformità. Scoraggia autonomia e individualità immergendo i principianti in un ambiente che reprime la libera scelta. I dogmi del gruppo diventano l’unica preoccupazione della persona. Qualsiasi cosa o chiunque non rientri in questa realtà rimodellata diventa irrilevante.”

S. Hassan

Nel plagio psicologico il controllo mentale è molto impattante per chi lo subisce, nel particolare avviene che un personaggio influente (un singolo o un piccolo gruppo) esercita un controllo e un’influenza completa su un altro individuo, anche attraverso tecniche psicologiche di persuasione coercitiva e influenza psicologica ingannevole.

In questa situazione la persona coinvolta, perde il controllo sulla propria identità e quindi sulle proprie credenze e comportamenti, al punto di perdere anche la capacità di pensare e ragionare criticamente, in modo indipendente. Perde la propria libertà di pensiero.

La persona vittima di plagio diventa quindi totalmente dipendente e priva di spirito critico, avviene una vera e propria sudditanza psicologica nei confronti della “persona influente“. Il plagio ha quindi come scopo finale il cambiamento totale della persona, implicando un controllo estremo della “vittima” che subisce acriticamente anche la svalutazione dei propri valori precedenti.

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Chi plagia ha solitamente una personalità forte, narcisista, con una tendenza spiccata al comando e con un’abilità ad attirare nella propria sfera di influenza una moltitudine di persone. Il plagiato è invece un individuo con problemi di personalità, mancante di figure di riferimento, con una bassa autostima e una bassa capacità discriminativa, incapace di prendere decisioni e quindi tendenzialmente orientato a delegare agli altri le decisioni importanti della propria vita.

Chi plagia diventa una figura di riferimento, indispensabile per il plagiato che si assoggetta e si affida totalmente ad esso. Il livello sociale di chi viene plagiato è variegato, infatti spesso il sentirsi parte di gruppi o cerchie di persone particolari che fanno riferimento ad un capo carismatico, è qualcosa di “esclusivo”, segno di una distinzione sociale e mette in una posizione di sicurezza identitaria.

Quindi tornando al caso di cronaca nera di Altavilla è possibile ipotizzare che il fenomeno del plagio abbia avuto un suo peso specifico nella storia in questione.

Difatti, la coppia di presunti “capi spirituali” indagata, è probabilmente rea di aver in qualche modo plagiato la famiglia, già vittima probabilmente di una commistione di idee e convinzioni patologiche maturati in un sistema familiare probabilmente “malato” e in parte compromesso.

Difatti pare che il padre, dai racconti di vicini e familiari, aveva comportamenti e idee che farebbero pensare ad un impostazione di personalità paranoide; la madre era invece vittima attiva suo malgrado delle idee paranoiche e deliranti, tant’è che pare sia stata lei a contattare e allacciare i contatti con la coppia di “fratelli di dio”

Ma al momento le indagini sono in corso e chiaramente stando alle ultime indiscrezioni la coppia indagata, tende a svincolarsi, ritenendo di non essere presente durante le uccisioni; mentre Barreca (marito/padre) principale indagato, dice di essere stato plagiato e quindi portato, senza la sua volontà, ad uccidere i componenti della sua famiglia.

Secondo quanto da lui dichiarato,

“..il 54enne era “quasi paralizzato”. “Ha capito di aver perso la famiglia – ha dichiarato Barracato (avvocato) – anche se non sa spiegarsi come. Subito però dice anche che ‘è stato compiuto il volere di Dio'”.

Fonte – Fanpage.it – 07/03/2024

Insomma, quello di Altavilla Milicia è un caso di cronaca molto complesso e ci vorrà ancora un po’ di tempo per venire a capo dell’intera vicenda e ricostruire al meglio la verità dei fatti. Ma può farci riflettere profondamente su quanto possano essere pericolosi e incontrollabili i fenomeni di plagio e controllo mentale, quando associati a situazioni individuali di fragilità psichica, possono portare a tragedie più o meno gravi per chi ne resta vittima.

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Pillole di psicologia: picacismo #psicologia #dca 

Persone che mangiano feci (coprogafia), ghiaccio (pagofagia), terra (geofagia), e così via..

Si tratta di soggetti accomunati dallo stesso disturbo del comportamento alimentare: il picacismo.

Nel video seguente ti descriverò questo disturbo in circa due minuti. Se sei curioso di saperne di più, non ti resta che guardare il video.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
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Psicologa scolastica,
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“Se non sei fatto in un certo modo, non hai senso di esistere”

Spacco tra una terapia e l’altra, oggi non ho nemmeno un momento per respirare, per pensare alla miriade di casini che ci sono fuori dalla stanza dei colloqui dove la mia, di esistenza, corre e percorre le stradine che ama camminare, lontano dai percorsi battuti che non trova sicuri.

La mia esistenza preferisce, infatti, procedere per vie e vicoletti non consoni; ama le strade sconosciute, quelle in cui nessuno andrebbe a cacciarsi. Anche nel viaggio è così, e chi mi è compagno di avventura può dirlo, non si seguono le strade da tour, quelle che le guide consigliano: si studia la mappa della città, si apre la cartina e si cammina, si gira, si segue il flusso del naso e dell’emozione.

Così ci si innamora.

Girare e andare a zonzo per strade sconosciute è anche quello che facciamo in terapia, nei colloqui. Se pensassimo in maniera lineare, il nostro lavoro diventerebbe impossibile poiché se c’è una cosa che non risponde alle leggi convenzionali è proprio l’apparato psichico e per questo -infatti- spaventa molti.

Riflettevo, pertanto, sull’impossibilità di rispondere e corrispondere a percorsi stabiliti e netti e questo, mentre guardavo alcune delle “imperfette” foto personali.

Sono appassionata di quelli che per me sono dettagli, di quel qualcosa che riesce a trovare spazio per persistere nell’esistenza che continua ad esaurirsi nel suo stesso essere. Una cosa che prima c’era nel mentre è vissuta è già esaurita; trovare quindi qualcosa che permanga oltre il tempo del momento non è cosa scontata.

Gli ultimi due pazienti che hanno lasciato la stanza sono molto diversi per età, provenienza geografica e contesto di appartenenza. Sembrerebbero gli umani più distanti eppure mi hanno portato un concetto simile, nei colloqui:

“Se non sei fatto in un certo modo, non hai senso di esistere”

L’idea di bellezza seppur scialba (trovo l’argomento piuttosto noioso) continua ad essere il focus di molti colloqui; devo dire che reputo per quella che sono fuori dalla stanza dei colloqui -nella mia quotidianità- superfluo conversare di bellezza estetica, di bellezza d’animo, intenti e sentimenti me ne nutro ma questa: è altra storia.

E’ presente, nella questione bellezza, una profonda asimmetria che la denota e questo è spesso evidente quando visioniamo le foto che l’altro ci scatta. La verità che non vogliamo accettare è che l’altro non guarderà mai il Sé dal nostro punto di vista, da come noi stessi lo osserviamo. Il corpo diviene infatti ciò che Grosz, 1990, p.38 definiva:

“un oggetto disponibile per gli altri dalla loro prospettiva -in altre parole-, è sia soggetto che oggetto”

La questione dell’essere fotografati ed essere impressi dall’altro che guarda -scruta- senza che vi sia il nostro minimo controllo sul Sé che viene fermato nell’istante, è la possibilità di sentirsi un fotogramma, imprigionato in quel dato momento che in realtà sta appartenendo all’altro (colui che compie l’azione di scattare) diventando così il soggetto stesso, una pedina fatta di sola estetica che non detiene il controllo dell’azione stessa. L’impossibilità di controllare quello che l’altro vede dipende dal fatto che anche egli stesso è attraversato da sentimenti, ricordi, fantasie inconsce e soprattutto da meccanismi difensivi (specie proiettivi) che possono renderci desiderabili , invisibili o nemici da sconfiggere.

La questione si complessifica ancora di più quando ci troviamo ad attraversare un momento della vita in cui non ci sentiamo desiderabili e siamo invasi dall’esperienza di insufficienza (è ciò che Lacan, 1966, indicherebbe con -mancanza a essere- manque à être). Cerchiamo pertanto di recuperare quell’onnipotenza perduta abbellendoci, smussando e limando qualche contorno che giudichiamo fuori posto o -nei casi estremi di non accettazione- ricorriamo alla chirurgia estetica.

Se l’altro è percepito come qualcuno che detiene l’interezza o l’unità del Sé che sentiamo mancante (qualcosa di cui il Sé si sente deprivato), l’invidia può fare il proprio gioco. Si tratta di una dinamica spesso presente nelle donne che ricorrono alla chirurgia estetica in cui essa è messa al servizio di un desiderio di appropriazione del corpo creativo materno -fantasia di autocreazione- auspicando ogni dipendenza dall’oggetto del desiderio.

La questione articolata e complessa, difficilmente riassumibile in questo spazio di trattazione, è strettamente legata alla fragilità narcisistica che persiste in quanto inscritta nel Sé, pur quando lo sviluppo è proseguito in maniera piuttosto lineare (mi si passi il termine). L’esperienza della vergogna resta nel nostro Sé e questa si palesa quando appare tutta la nostra suscettibilità relativamente al nostro corpo, agli apprezzamenti ricevuti o meno ed ecco che tutti limiamo che sia con il make-up, con un certo abbigliamento, la forma che possiamo assumere.

La nostra superficie si fa portatrice di un disagio molto più profondo, che attecchisce lì, sotto la pelle.

Quello che rimane interessante è che per quanto un addome scolpito e piatto possa fare gola; per quanto cosce snelle e toniche siamo desiderabili così come labbra carnose e nasino all’insù, la bellezza va molto oltre il vestito di pelle che agghindiamo in maniera così esemplare ogni giorno.

Quel vestito un giorno sarà sgualcito e questo anche se continuiamo a dargli colpi da stiro, è nella normale bellezza dell’esistenza smettere di esistere come corpo.

La straordinarietà è allora persistere in anima, spirito, ognuno conferisca il sostantivo che meglio crede idoneo per quel che si accorda con il suo senso di Sé.

Il nostro ricordo -un domani- sarà molto lontano dall’essere un viso spianato o un gluteo tondo.

E questo lo auguro a tutti perché vorrebbe dire che abbiamo fatto qualcosa di fondamentale e fuori dall’ordinario, nella vita.

Nella nostra e in quella dell’altro.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
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Guaritrice del cuore: Sanacore

La grande questione cui non è mai stata data risposta ed a cui non sono stato capace di rispondere nonostante i miei 30 anni di ricerca sull’animo femminile è: cosa vuole una donna?

Sigmund Freud

Jacques Lacan tenterà di riprendere la questione, provando a rispondervi, nel suo Seminario XX, (1972-1973).

A quanto pare: ancora non siete riusciti a trovare questa risposta..

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
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Ridere e piangere

“Doc ma si può piangere e ridere contemporaneamente? Che disturbo ho? Mica è possibile una cosa del genere?”

La richieste della ragazza penetrò i miei sensi senza barriera alcuna, evitando le maglie della censura legandosi -cingendosi- come ferro aureo stretto al dito, alla mia storia personale.

Quello specifico ricordo, si era fatto fede nunziale.

Promessa.

“Certo -è possibile- e questo senza che vi sia una qualche presunta psicopatologia sottostante. Si piange e si ride, contemporaneamente, nella maggior parte dei casi quando qualcosa è legato ad un amore: al suo ricordo. Si piange e si ride non per l’amato (in senso carnale); si piange e si ride quando la dolcezza penetra un ricordo portando alla sua reviviscenza. Si piange e si ride quando il tempo s’è fatto strada aprendo una voragine di non ritorno in quel tempo che -era, è stato- ed ora è condensato in un varco in cui il tempo presente si fa opercolo protettivo.”

Il mio opercolo -allora- si è spostato e ha lasciato uscire il suo contenuto:

Ed è assolutamente stupendo ridere e piangere: contemporaneamente.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

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Linguaggio e Psicologia – PODCAST

“I confini del mio linguaggio sono i confini del mio mondo”

Ludwig Wittgenstein

In questo episodio parleremo di qualcosa che accomuna tutti gli esseri umani e che è in grado, attraverso dei codici e dei simboli di trasmettere, conservare, significare ed elaborare tutte le informazioni che definiscono uno scambio comunicativo con l’Altro.


Parleremo del linguaggio e della sua importanza nella vita psichica degli individui.

Ci faremo accompagnare, come sempre, dalle definizioni di alcuni importanti studiosi e teorici che ci aiuteranno a capire al meglio questa importante funzione psichica.

Buon Ascolto!

Linguaggio e Psicologia – In Viaggio con la Psicologia – Podcast Spreaker
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Narrare il proprio racconto.

La stanza dei colloqui è un luogo altro, isola del tempo dove il tempo stesso arresta la canonica corsa (almeno quella legalmente riconosciuta) per prendersi il suo tempo.

L’isola del tempo senza tempo diviene allora un luogo dove l’altro e l’altrove diventano tempo presente e il presente stesso, smette di avere i suoi connotati poiché è pervertito da quegli pseudopodi che -giungendo dal passato- lo fanno procedere in maniera molto incerta verso il futuro arrestando di continuo il suo stesso fluire.

Accelerare, diminuire, correre, sostare.

(Freud, 1914, diceva ricordare, ripetere, rielaborare).

Nell’isola del tempo senza tempo gli incontri si accompagnano con e alla narrazione; un racconto quindi formativo e trasformativo dotato di componenti pragmatiche, strutturali, linguistiche e semantiche.

Il racconto si fa allora corpo accompagnandosi a gesti che fungono da luoghi poichè stanno “in luogo di”, le parole si fanno tempo perché significano “quel che fu e forse sarà”, gli accenti si fanno significanti stando al posto di quel che non può essere detto e il non detto si dota di esistenza.

Nella stanza dei colloqui, pertanto, esisto perché quel che non posso dire emerge dagli abissi della censura e vestendosi da vanitosa sirena -silentemente- guadagna il suo posto sulla sedia che si erge a scoglio d’approdo per la memoria.

La capacità di narrare, intesa come funzione mentale, è fondamentale per dare una organizzazione e coerenza al nostro mondo interno così come si situa come una capacità essenziale per attribuire significati all’esperienza umana. La narrazione può essere un racconto del Sé che si dota di senso (e si sviluppa) quando ripercorriamo eventi e esperienze giocando, ricordando e attribuendo emozioni e idee, contribuendo alla formazione dell’identità. A tal proposito, Stern, 1987, identifica il Sé narrativo come ultima tappa dello sviluppo del Sé.

Narrarsi -tuttavia- non è raccontarsi.

Narrandomi racconto una (o più) storie che non bastano per giungere al racconto. Quando narro una storia mi fermo al cedere, all’interlocutore, una serie di eventi o avvenimenti che posso reputare significativi mentre con il racconto doto di forma quei fatti che intendo narrare.

Narrazione e racconto procedono intersecandosi, celando le presunte verità, offuscando la bellezza lasciando trapassare il dolore.

Narrazione e racconto sono due dita intrecciate che giocano a farsi lo sgambetto premendo, strusciando, insistendo poi cedendo.

Alcune persone temono di dirsi oppure narrano la loro versione (di sé) omettendo il racconto, altri si raccontano non dotando gli eventi di una qualche forma di narrazione.

Ho sempre trovato tremendamente affascinante la narrazione dei racconti, le storie mi eccitano, mi fanno vibrare. Osservo quindi il mondo circostante e capto le sue storie, le sue speranze, le sue paure, le sue gioie, i timori, le vergogne.

Se la memoria dell’altro emerge come sirena incantratrice io mi faccio Ulisse e senza tappi nè funi contenitive, mi fido del suono delle parole.

Narrami un racconto.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

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Lea

Lea è una donna di circa 38 anni giunta in consultazione con una richiesta specifica ma al contempo non troppo definita. La donna -madre di una bambina di 7 anni- ha da poco vissuto un incontro con un uomo che le ha lasciato una brutta sensazione (citazione diretta di Lea) addosso.

“Buongiorno Dottoressa la ringrazio per avermi ricevuto in maniera così celere ma davvero – mi creda- sono in uno stato che non riesco più a definire. Ho 38 anni e sono una mamma single, il presunto padre di (nome della bambina) non l’ha mai riconosciuta e questo a me, va bene. Sono single fondamentalmente da sempre e questo non per mio volere; non credo di essere una donna così insostenibile anzi.. Ho sempre creduto nella libertà degli intenti reciproci, non ho mai desiderato né cercato relazioni fagocitanti ma sì, ho cercato l’amore. Ho creduto di meritarlo: è un male?

Il mio equilibrio è vacillato quando ho conosciuto I un uomo che credevo molto diverso da quello che mi ha poi mostrato. I non è un bell’uomo ma ha quel qualcosa di tremendamente affascinante che mi ha fatto considerare l’idea di potermi fidare. L’ho conosciuto in un momento in cui non cercavo, per così dire, l’affetto eppure mi sono ritrovata a messaggiare notte e giorno, a condividere pezzi della mia esistenza con lui che, dal canto suo, mi dava piccole perle microscopiche della sua vita.

Mi è parso un uomo strano, lo ammetto.. c’era qualcosa in lui che non mi faceva sentire completamente al sicuro, qualcosa che mi faceva sentire a disagio eppure ho continuato a parlare con lui. I si è mostrato da subito accorto, per certo versi, non so come dirle dottoressa c’era da un lato la mia sensazione di “strano” e dall’altro il suo dirmi quanto fossi bella, simpatica e intelligente. Probabilmente avevo bisogno che qualcuno mi facesse sentire affascinante, certi apprezzamenti sul mio corpo li ho vissuti con una ritrovata ingordigia di sensualità che credevo completamente rimossa, sepolta. Sa.. la gravidanza apre un varco nel corpo della donna, segna un prima e un dopo; un corpo giovane che rinuncia paradossalmente abbracciandola alla sua onnipotenza. I mi ha proposto quindi di partire insieme per una vacanza, aveva prenotato tutto, l’itinerario era davvero bello. Mi stavo organizzando con la bambina, non sapevo ancora se portarla con me o lasciarla da mia madre (questo è stato un punto di grande sofferenza per me, perché mi sono sentita una madre cattiva all’idea di partire e lasciare la mia bambina) quindi, si immagini dottoressa.. quanto disagio vivevo sentendomi divisa tra la me quasi adolescente e la me donna/madre.

I minuti di conversazione diventano ore, giorni e settimane poi d’un tratto I, se ne esce con una dichiarazione “Lea io comunque volevo dirti che da qualche mese frequento una tipa, niente di serio eh.. ci vediamo giusto il weekend poi.. sì insomma.. mi vedo anche con altre ma nulla di serio. Con te è diverso”.

No dottoressa.. io sono rimasta di merda così tanto da essermi congelata e aver detto un normale “arrivederci” (si intenda a mai più) e basta. Mi sono sentita offesa, presa in giro, vista e rivista dentro da chi aveva solo una maschera in volto. Mi sono sentita abusata del mio tempo e del mio spazio mentale privato e personale. Ho messo in dubbio mia figlia e la mia genitorialità, mi sono offerta a chi, di fatto, aveva ed ha un solo interesse e obiettivo in mente: scopare. Ma quanto deve stare male uno così?”

La storia di Lea apre a tutta una serie di considerazioni.

La prima e più importante da fare, specie con la contemporaneità che viviamo, concerne la sensazione di disagio provata fin da subito durante le conversazioni con I. Quando ci interfacciamo con qualcuno e la sensazione che proviamo è quella di disagio, di strano, di finto, questo segnale è assolutamente quello da assecondare e che invece -purtroppo- la maggior parte delle persone evita di considerare. Laddove c’è disagio non può esserci relazione.

Una relazione è un luogo sicuro.

Una persona che ci rimanda un senso di discomfort è molto probabilmente un narcisista da cui è bene scappare il prima possibile. Lea mi racconta che la voce di I era una voce strana, fintamente italiana con un accento molto pulito e subdolo ed ecco un altro campanello d’allarme: subdolo/finto.

Lea si è sentita sbagliata e ha dubitato persino delle sue capacità genitoriali (su cui, specifico, non c’è assolutamente dubbio. Lea è una donna e una mamma attenta, calda e accorta) cadendo vittima del gioco di I: Io sono Io, sei tu quella mancante.

Lea suo malgrado mi ha portato una configurazione tipica, che vedo spesso nella mia isola del tempo senza tempo (la stanza dei colloqui).

Ci sono persone che sono “relazional fagocitanti”, malati di attenzioni che pur di sentirsi dotati di senso, macinano relazioni siano esse sessuali, sensuali, amicali, goliardiche e tutto questo, perché mancanti.

Vi sono mariti annoiati che, forti del loro stabile e perfetto matrimonio, ricercano altrove quella leggiadria che manca in casa; donne insicure, madri nervose che cercano lontano da figli, mariti e piatti da lavare, l’idea di calore, l’idea di sensualità e il bisogno di amore costante.

Ci sono uomini e donne spaventati dalle relazioni che credono che rompere i tabù sia la via regia verso il piacere e -pertanto- verso la pace mentale e dei sensi.

Vi sono persone che rinunciano all’aspetto della sensualità e sessualità perché la reputano superflua, inutile e diventano asceti rinchiusi nel loro mondo di idee. Persone altre aprono ai soli piaceri della carne riducendosi a brandelli sfilacciati nemmeno più buoni per lo spezzatino.

Ci sono relazioni in cui si viene innalzate a ruolo di Musa per qualcuno che di te e su di te scrive poesie, libri facendoti quasi Madonna in cui il corpo non esiste (magari quel corpo dorme con un’altra donna) e tu dovresti accontentarti di quattro belle parole.. Oppure relazioni mancanti di parole e di dimensione spirituale in cui il solo corpo diviene centrale.

Queste configurazioni hanno in comune un uso massiccio dei meccanismi di difesa e una fottuta paura.

Le relazioni diventano complesse perché paradossalmente potrebbero essere la cosa più semplice da vivere ma, per stare in relazione con l’altro devi essere (stato) prima in relazione con te stesso e la relazione con te stesso comincia dalla relazione con l’altro (caregiver).

Notiamo pertanto quanto diviene complesso arrivare all’Io chi sono, quella risposta al dilemma identitario che diviene il fulcro per essere in relazione con l’altro.

Lo spazio di trattazione è poco per la vastità dell’argomento che è molto di più della somma delle sue parti in quanto non è una semplice scelta tra “la fedeltà è meglio dell’infedeltà o viceversa”.

La storia di Lea termina con un inizio.

La donna è partita, con sua figlia, per una straordinaria isola del Mediterraneo in cui la coppia si è riscoperta ancor più di prima una salda diade tutta femminile che non ha bisogno di un uomo per esistere. Al ritorno dal viaggio Lea e la sua splendida luce ambrata, la figlia, avevano una bella abbronzatura sul corpo. Durante i colloqui ho visto Lea perdere strati di epidermide increspati dal sale mediterraneo. Per ogni strato corneo perso da Lea, ho visto rinascere e rinnovare uno strato della sua pelle e questo fin giù, fino allo strato basale lì.. dove giace l’Io..

Dottoressa la mettiamo una canzone?

Via le scarpe, piedi sul parquet e eccola Lea che canta, libera e serena

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
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Respira con me. Esercizio di rilassamento, respirazione, immaginazione

Oggi faremo insieme un piccolo esercizio di rilassamento.

Ti condurrò, tramite un protocollo pensato per indurre uno stato di benessere psicofisico, verso una consapevolezza maggiore utile ad affrontare con maggior serenità le sfide della nostra vita.

Mettiti comodo, indossa gli auricolari, spegni il frastuono che c’è fuori da te e:

respira con me!

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Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
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Peter Pan ha l’etnia sbagliata

Quando il primo bambino rise per la prima volta, la sua risata si sbriciolò in migliaia di frammenti che si sparpagliarono qua e là. Fu così che nacquero le fate.

James Matthew Barrie, “Peter Pan. Il bambino che non voleva crescere”, 1904

Poi ci sono tutti quei bambini che non ridono -forse piangono- o magari nemmeno hanno il diritto di poterlo fare.

Ci sono quei bambini di cui non si può parlare, quelli che si trovano per puro caso che so.. al centro di un genocidio e per questo devono pure chiedere scusa che la colpa mica è loro se il destino li ha fatti nascere lì.

Per certi bambini non esistono le risate figuriamoci le fate e gli unici frammenti che conoscono sono quelli prodotti dalle mine che saltano, dalle bombe e da quelle che una volta erano case.

Per certi bambini nascere è stato un peccato e morire una scelta (dell’altro).

Non esistono scuse.

Non abbiamo scuse.

G.

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Lo specchio di Alessandro

E’ domenica non riesco a dormire e come spesso accade mi giro e rigiro nel letto; le coperte diventano un cavallone intorno al mio corpo, non resisto alla stretta del tessuto e cerco in ogni modo di liberarmi, di trovare uno spiraglio per respirare. Butto la mano sul comodino e la sua geometria fredda di ferro nero mi arriva come una piccola scossa; accendo il telefono per controllare l’ora: sono le 2:38 e leggo

“Doc io non ce la faccio più. Sono ore che piango insistentemente perché non mi riconosco più. Ho controllato tutte le mie bacheche, le liste messaggi nella speranza che qualcuno mi degnasse di un commento, sperando che qualcuno si accorgesse della mia bellezza ma niente. Sono un nessuno perso in un mare di tanti -tanti- che sono meglio di me.

Il messaggio è di Alessandro (nome di fantasia) un ragazzo poco più che ventenne che insegue -senza sosta- la sua immagine diventando -egli stesso- la preda.

A. è un ragazzo molto carismatico e intraprendente, mostra una cultura notevole, viaggia e si interessa all’altro (svolge, per esempio, diverse attività di volontariato tanto da essere stato anche in altri continenti con delle associazioni specifiche). Nell’ultimo periodo, tuttavia, Alessandro ha cominciato a mostrare un certo malessere circoscritto in particolare alla sfera dell’immagine corporea.

Alessandro racconta che un giorno, guardandosi allo specchio, non ha riconosciuto la sua immagine

“Era come se, Doc, non lo so.. credo di esser diventato pazzo.. cioè.. Io mi guardavo ma ho cominciato a vedermi deforme capiamoci.. mi sentivo aderente alla realtà non era insomma una allucinazione ma è proprio che quell’immagine non era mia. Mi sono sentito brutto! ma brutto proprio.. ho cominciato a scorrere le foto su ig ed erano tutti così fighi, proporzionati, muscolosi.. semplicemente erano belli mentre io -semplicemente- sono brutto”

Tra i 6 e i 18 mesi avviene nella vita dell’infante, ciò che prende il nome di stadio allo specchio (J. Lacan, 1936). L’infante anticipa, attraverso l’immaginazione, la padronanza della propria immagine corporea e ciò avviene quando egli vede la propria immagine riflessa nello specchio (una immagine che come a breve vedremo è prematura).

Lo stadio allo specchio rappresenta la matrice -il calco- di ciò che sarà l’Io. L’immagine -infatti- che il bambino vede riflessa nello specchio è di più della semplice somma delle sue parti costituenti, questo perché tale immagine (la sua forma) ha una identità a sé ed è con tale identità che il bambino si identifica.

Lo stadio allo specchio è in sostanza un dramma che l’infans vive perché questo avviene in anticipo presentandosi però, al contempo, come forma ortopedica (J.Lacan 1974), poiché fungerà da calco per l’assunzione della futura alienante identità.

L’immagine è un-di-più rispetto al corpo-in-frammenti, ed è per questo che essa esercita sul soggetto un potere di fascinazione. Quindi, al di qua dello specchio, il bambino è un corpo-in-frammenti (corp morcélé), egli si trova in una fase di incoordinazione motoria che gli procura disagio e frustrazione: questo è il soggetto (Je).

Nello specchio il bambino si vede come un tutto di cui è padrone ma questo avviene verso quell’immagine idealizzata (unificata) di sé che lo specchio gli restituisce. Il riconoscimento di sé si realizza nel rapporto che il soggetto stabilisce con l’immagine riflessa nello specchio. Riconoscendo l’immagine come propria risulta possibile una prima individuazione: forma primordiale nella quale il soggetto si “virtualizza”. Tale forma primordiale di “io” si produce nell’istante in cui il soggetto si lascia prendere dall’immagine che lo costituisce attraverso una linea di finzione, attraverso una traiettoria illusoria: la sua natura è assolutamente narcisistica.

Abbiamo pertanto il bambino che nello specchio vede riflessa una immagine che appare altro da sé in cui si riconosce ma, dall’altro lato dello specchio, il bambino si trova nello stato di soggetto frammentato e questa immagine riflessa sembra sostituirsi a tale frammentazione. Questa immagine ha pertanto un potere narcisistico incantatorio che permette di andare oltre quella discordanza presente tra la condizione di onnipotenza dell’altro e l’impotenza costitutiva del soggetto; accade quindi che l’immagine di sé diviene un sostituto narcisistico che offre una sorta di cuscinetto che attutisce la frammentazione reale del soggetto

Per Lacan l’immagine ha una funzione “costituente”1, cioè essa non dipende dalla facoltà soggettiva dell’immaginazione, ma ha il potere di “causare” il soggetto. L’io si costituisce, nella sua genesi speculare, come un derivato dell’immagine.

E’ tuttavia presente un altro punto centrale nello stadio allo specchio; per fa sì che questo incontro con l’immagine altra da sé giunga a compimento e che l’infans si cali nel calco dato, è necessaria la parola dell’altro “questo sei tu” (l’altro esterno, un membro della famiglia per esempio) che riconosca e inscriva il soggetto in una tradizione familiare dotandolo di quella identità con cui diventerà membro di quel dato gruppo. La cosa importante che sottolinea Lacan, è che è proprio l’Altro a ratificare l’immagine del bambino allo specchio. Il bambino è quindi identificato ad una marca simbolica.

Il rapporto con lo specchio è pertanto altamente complesso e fortemente soggetto alle leggi della percezione che sovente è una dispercezione (il percepito, di fatto, non esiste).

Alessandro vive esposto alle leggi del tempo presente, un tempo che impone l’esposizione: del corpo, dell’immagine, e che crea lo scontro con quell’altro da sé comportando una possibile prigionia nel narcisismo originario da cui risulta difficile poi uscire.

Molti vivono la difficoltà di incontrare quell’immagine riflessa che non sentono loro; è una immagine estranea che guarda e scruta con sospetto, che giudica il corpo reale fatto di carne pulsante e che impone -invece- l’uso (e l’abuso) del corpo cibernetico, un corpo che non esiste e che viene continuamente limato, smussato e filtrato dai filtri online (e dalla chirurgia nella real life).

L’altro da sé giudica perché reclama, dallo specchio, una esistenza che non gli appartiene ed avido invidia la realtà di quel corpo che invece reclama la fallace esistenza dell’altro.

Guardo Alessandro e lo vedo, innanzi a me, scisso, diviso tra il suo Io e quell’altro che dallo specchio lo deride e lo fagocita. Eppure Alessandro è con me, mi parla, sorride e mi porge la sua straordinaria visione del mondo.

E’ lunedì, sono le 11:30 e Ale è seduto dall’altro lato dello spazio, sulla sua sedia verde.

Lo guardo: è sereno.

Ha deciso che in questo percorso non sarà più solo. Si siede di fronte allo specchio e comincia a parlare

Ciao Alessandro..

E Alessandro è qui.

Lo vedo.

(Adesso -forse- anche lui)

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

1 Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1949), p., 89

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Il “Peso” Psichico del Segreto

Tutti nella vita abbiamo, almeno per una volta, dovuto mantenere un segreto.

Spesso le conseguenze per la salute psichica di chi deve per forza nascondere un segreto “inconfessabile” possono essere molteplici e per nulla piacevoli: stress, sensi di colpa, ansia, insonnia, pensieri ossessivi, paranoie..

Nascondere qualcosa ha sempre un impatto negativo sulla salute mentale. In questi casi l’aiuto di uno Psicologo o di uno Psicoterapeuta può dare l’opportunità, a chi ne ha bisogno, di elaborare e ridefinire in una prospettiva diversa quel “segreto inconfessabile“.

Buona visione!

Il “Peso” Psichico del Segreto – ilpensierononlineare channel

“Nessun mortale può mantenere un segreto: se le labbra restano mute, parlano le dita.”

S. Freud

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Condivisione sociale

Ed eccola qui la famosa condivisione sociale di cui spesso parlo, in cui tanto credo e che molto mi fa sperare per una migliore risoluzione delle cose, nel mondo.

Marcella grazie di cuore, mi sento onorata nel sapere di esser riuscita in uno dei miei intenti ovvero quello di stimolare la profonda riflessione in quanti leggono, vedono o ascoltano le mie esperienze lavorative.

Grazie di cuore, non posso aggiungere altro.

💓

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Non piovono farfalle: un adolescente chiede aiuto

Mi trovo a scrivere oggi anche se non previsto. Ammetto di non scrivere partendo da un “oggi sì, no, forse” ma di farlo solo quando la mia mente ha bisogno di condividere, di riflettere, di dire. Accade allora che da ieri sera, nella mia ondosa mente una certa notizia si è instradata con forza ed insistenza guadagnandosi la persistenza che mi ha imposto di darle esistenza in questo luogo.

Il ragazzo di cui parlerò non rientra nei miei gusti musicali, è un cantante giovanissimo che produce musica giovanissima che non rispecchia la mia età, gusti né linguaggio. Perché mi trovo a scrivere di lui, allora?

Per deontologia sono tenuta a metter da parte le mie idee e convinzioni, a rispettare opinioni e credenze del mio paziente e non devo imporre il mio sistema di valori né tantomeno devo discriminare l’altro (art.4 Codice Deontologico degli Psicologi). Ho pertanto trovato interessante partire dalla vicenda che a breve esporrò perché la trovo molto in linea con quello che da clinica mi trovo a vivere ogni giorno.

Chiedo pertanto al lettore un piccolo sforzo ovvero quello di provare a sintonizzarsi con un orecchio che punti all’esterno verso l’altro (in questo caso il ragazzo) e verso l’interno (se stessi e il proprio vissuto emotivo), per provare a sintonizzarsi con quanto Sangiovanni sta vivendo.

Proviamo a prendere i nostri ragazzi per mano senza fermarci al primo rifiuto.

Giovanni Pietro Damian, cantante vicentino di 21 anni conosciuto come Sangiovanni, dopo aver partecipato al festival di Sanremo guadagnando la penultima posizione, ha affermato di aver bisogno di una pausa ritirandosi temporaneamente dalle scene, rimandando sia l’uscita dell’album che i previsti concerti al Forum.

Sangiovanni non è nuovo ad affermazioni di un certo tipo, per quanto concerne la salute mentale. Un anno fa, più o meno, ospite della trasmissione le Iene, ha tenuto un monologo molto interessante

“Ho iniziato a fare musica perché nessuno voleva ascoltarmi, parlavo e nessuno capiva. Forse mi spiegavo male io. Ho iniziato a mettere in musica i miei pensieri. È stata la mia prima terapia. Finalmente avevo qualcuno con cui dialogare, una voce che mi chiamava nel cuore della notte, che mi faceva battere il cuore, un orecchio a cui confidare ansie, problemi e paranoie. E improvvisamente svaniva. Ho chiesto aiuto alla musica e lei mi ha teso una mano. Mi ha permesso di volare. Poi è arrivato il successo, è stato tutto enorme, anche le aspettative. Ansie, problemi, paranoie che la musica faceva svanire sono tornati. La soluzione era diventata il problema e mi è crollato tutto addosso. Mi ha fatto cadere. E un’altra volta ho dovuto chiedere aiuto e cercare qualcuno che mi tendesse una mano. Sono andato in terapia, ho pagato qualcuno per ascoltarmi. Non una madre, un padre o una fidanzata, ma qualcuno a cui puoi dire tutto senza il rischio di ferirlo. E non ti giudica. E sta lì per aiutarti a stare bene. Raccontarsi non è facile, può essere doloroso, ma la terapia è come la palestra: devi farla spesso, sentire la fatica, il sudore, i muscoli indolenziti. Sono sceso sul mio fondo e ho accettato la sofferenza che mi ci ha portato. E anche se sono un privilegiato, se sono fortunato, se faccio ciò che mi piace, so che ci saranno comunque momenti in cui soffrirò. Ho solo smesso di vergognarmi, perché ho capito che in ogni forma di dolore c’è sempre una forma di dignità. A volte mi sento forte, molte più volte non mi sento in grado, ma quando succede ho imparato che posso chiedere aiuto e che qualcuno mi tenderà una mano. Chieder aiuto non è una debolezza, è una forza. Fatelo per tornare a volare”.

Il 16 Febbraio 2024 -tuttavia- il ragazzo ha pubblicato un post sul suo account ufficiale Instagram in cui dice

«Non riesco più a fingere che vada tutto bene e che sia felice di quello che sto facendo. A volte bisogna avere il coraggio di fermarsi e sono qui per condividere con voi che ho deciso di farlo».

In merito al brano portato a Sanremo (ho visto la performance, online, perché ero interessata al linguaggio analogico) e in effetti brano, melodia, armonia e soprattutto la postura del corpo tutto erano assolutamente discendenti, piatti, tristi, svuotati e lontani. Sangio ha detto

«Parla di una fine e io per andare oltre questa fine ho dovuto scrivere questa canzone. Ma vorrei che il significato lo trovassero le persone perché può averne diversi. Nella canzone ci sono tanti pensieri, pesi che porto sullo stomaco e che tante volte non riesco a lasciarmi andare via. Le emozioni si possono raccontare con gentilezza, empatia, sensibilità, e non sempre con la violenza. Spero che questa canzone faccia bene: oltre l’addio può esserci qualcosa di positivo perché ci si può sempre voler bene anche dopo l’addio. Molte persone rimangono in situazioni tossiche che non fanno bene, spero di essere una spalla per far capire che oltre c’è altro. A me non interessa essere cool, ma dire la verità. E la verità è che non sono una persona che sta bene, ma lotta per star meglio anche grazie alla musica».

Ho appreso che il ragazzo aveva allacciato una relazione d’amore durante un talent da lui frequentato. Pare che questa storia (che tanto aveva appassionato i fan) sia finita. Sangiovanni ha pertanto vissuto da un lato una grande ascesa (costellata di successi) professionale che si è scontrata con la discesa amorosa terminata proprio con la fine di un amore.

Per quanto concerne la sua salute mentale, il ragazzo dice:

«Come sto? Non so dirlo. Non sono una persona che sta bene mentalmente, ma provo a stare meglio con la musica. Mi sento fragile, debole, e non c’è nulla di male a esserlo. La canzone che porto in gara rispecchia anche questo (..)  Gli adulti non si domandano perché viviamo questo disagio, è il momento di chiederlo (..) Vivo una vita complessa come tanti ragazzi della mia età e ho trascurato la mia crescita per fare questo mestiere. Ho perso tanto di me, ho perso tanto, anche cose semplici e che veramente sono importanti. Mi aspetto che siate voi a dire a me che cosa posso fare io per stare meglio perché ho vent’anni e non lo posso imparare da solo ma invece mi ritrovo sempre più solo. Io non ho avuto nessuno ad aiutarmi e tutt’ora non ho nessuno, non ho dei genitori che possono capirmi, non ho una famiglia che possa capirmi perché certe cose nascono solo dentro di noi, dentro ognuno di noi. Io mi sono trovato un aiuto da solo ma non sono migliore degli altri, non avevo altre soluzioni e ho trovato la musica».

Ho cercato di riassumere i punti salienti di quanto esposto da Sangio un ragazzo probabilmente troppo gentile per il meccanismo in cui è stato inserito (e questo lui non poteva saperlo ab origine, quando ti getti nel mondo dello spettacolo partendo dalle tue fantasie impregnate di sogni e speranze).

Ho trovato interessante il suo monologo, la consapevolezza elicitata che non trovo nemmeno in tutti gli adulti che ancora non credono nel potere della talking cure “ Sono andato in terapia, ho pagato qualcuno per ascoltarmi. Non una madre, un padre o una fidanzata, ma qualcuno a cui puoi dire tutto senza il rischio di ferirlo. E non ti giudica. E sta lì per aiutarti a stare “, queste affermazioni sono straordinariamente potenti così come la capacità di dire “non sto bene. Mi fermo; non so come sto; adulti fatevi una domanda del perché stiamo così male”.

So che molti storceranno il naso (parecchi lo stanno già facendo) eppure ho visto, negli anni, più costruzione nella presa di coscienza della sofferenza ma -soprattutto- nella richiesta di aiuto che nella capacità distruttiva della saccenteria.

Sangiovanni mi ha ricordato tanto i giovani che si siedono sull’altra sedia, al di là dell’invisibile linea di confine che creano le nostre gambe. Ne ho rivisto la geometria della sofferenza, i contorni dei dubbi che non hanno nemmeno più la loro stessa forma. Ho rivisto nel capo basso di Sangio l’insistenza di domande sconosciute (i ragazzi davvero non sanno, spesso, perché stanno male eppure soffrono è un dato di fatto). Ho rivisto nell’improponibile abbigliamento del ragazzo il marasma dell’indistinto, il crollo dei garanti metapsichici e metasociali, l’assenza della legge del padre e l’inconsistenza del godimento.

Rivedo nelle parole di Sangiovanni l’incapacità di desiderare e il non riuscire ad attestarsi come custode del suo stesso desiderio. Sangio si ferma e chiede aiuto come solo i bambini sanno fare. Regrediamo nella sofferenza, (ri)torniamo ad uno stadio in cui abbiamo bisogno che qualcuno si prenda cura di noi “il prossimo umano soccorrevole“, l’umano che comprende quell’attimo prima che tu domandi, la tua richiesta. E’ quella straordinaria funzione materna che si svolge durante i colloqui psicologici o psicoterapeutici.

Ho bisogno come clinica e come persona, che la smettiamo di voltarci dall’altra parte sentendoci soggetti conoscitori della verità assoluta; ho bisogno -come clinica e come persona- che ciascuno diventi per l’altro il prossimo umano soccorrevole che comprende (o almeno ci prova), che chiede, domanda e si interessa.

Ne ho bisogno perché tutti noi abbiamo la necessità di riposizionarci come esseri umani all’interno di una società che sta implodendo nella sua indifferenza.

Non sono indifferente alla sofferenza di Sangiovanni, così come non lo sono verso la sofferenza di chiunque con coraggioso timore chiede la mia mano.

E la mia mano c’è.

Sempre.

(Non piovono farfalle, il riferimento nel titolo è a “Piovono farfalle” brano del 2022 con cui Sangiovanni si classificò quinto al Festival di Sanremo 2022)

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

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Orecchio

L’orecchio è un organo per me fondamentale; complesso, evocativo riesce a tradurre le onde sonore in stimoli nervosi per il cervello e permette l’equilibrio..

Mentre procedevo verso uno degli studi in cui svolgo la mia attività, riflettevo sull’importanza che riveste per me l’orecchio e questo da sempre, da quando decisi di approcciarmi allo studio del pianoforte individuando verso gli 8 anni, in questo strumento, un modo per essere.

L’orecchio è diventato pertanto il centro del mio universo, precocemente. Allenamento intensivo musicale, ascolto passivo dello spazio intorno a me, ascolto empatico dell’altro, tutte caratteristiche che sono poi diventate il mio attuale lavoro: la psicologa clinica.

Il mio orecchio è fin troppo sottile; si affatica facilmente è spesso vittima di otiti dolorosissime. Sento e ascolto pure senza volere; il mio senso è sempre attivo e ricettivo.

Nel suo stesso silenzio, produce rumori facendomi ascoltare il mio battito cardiaco rimbombante e saltellante.. Ha costante bisogno di suoni è affascinato dalle lingue. Ho un orecchio capace di distingue il “No” detto da un ragazzo senegalese che, attraversato dal francese, rifiuta qualcosa in italiano da quello detto da un egiziano; subisco il fascino delle lingue dell’est che, scivolando sull’italiano producono un accento dolcissimo e pacato. Vibra, il mio timpano all’eloquio spagnolo, sussulta quando l’arabo canta e mi fa sentire come incollata nel miele. Rido di piacere cercando di trovare la corretta pronuncia all’ eau francese e così potrei andare avanti per ogni lingua del mondo.

L’orecchio mio sorride.

Ho, tuttavia, una sensibilità estrema per i rumori. Percepisco la masticazione del mio interlocutore, il respiro di chi ho di fianco, il rumore delle palpebre e l’untuosità delle lacrime che impastano il dotto lacrimale.

La voce della televisione è sempre troppo alta e amo il fruscio dei fiori.

Il mio è un mondo sonoro, ma la musica è presente in ogni età dell’uomo e in ogni cultura partendo già dalla vita intrauterina. E’ infatti nell’epoca fetale che il mondo e la sua presenza si attestano al feto attraverso le vibrazioni che il corpo materno riceve, e gli rinvia.

La stessa prima relazione intersoggettiva, e quindi la prima comunicazione dell’essere umano è altamente musicale. A dimostrarlo è il noto “baby talk”, il linguaggio specifico della diade madre bambino, usato nella comunicazione preverbale dalla coppia specifica che è caratterizzato da semplificazioni, amplificazione del tono di voce, enfatizzazione dai contorni melodici.

L’approfondimento sulla musica nel campo delle neuroscienze si è sviluppata notevolmente negli ultimi anni. L’evoluzione di strumenti tecnologici come la Risonanza magnetica funzionale (fMRI) o la Stimolazione magnetica transcranica (TMS) ha permesso di visualizzare le parti attive del cervello durante l’elaborazione degli stimoli musicali dimostrando che lo stimolo sonoro musicale è capace di attivare più aree cerebrali distinte tra loro.

Per capire quanto complessa sia questa facoltà, basta pensare che intonare una semplice nota coinvolge diversi meccanismi tra cui: attenzione, memorizzazione, integrazione senso-motoria.

Recenti ricerche hanno dimostrato che, dopo alcuni mesi, il cervello dei bambini che avevano approfondito lo studio e l’uso di uno strumento musicale, risultava modificato in maniera diversa da quello dei coetanei che non avevano studiato musica. E’ lo straordinario potere che ha la musica di indurre plasticità cerebrale ovvero la capacità del cervello di modificare la propria struttura e la propria funzionalità come conseguenza della ricezione di stimoli interni ed esterni.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
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Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.

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Insicurezza e bisogno di approvazione

Un bisogno comune, il desiderio di essere visti di ricevere l’approvazione altrui.

Una profonda insicurezza, sentirsi sempre sbagliati, mancanti in qualcosa: cosa potrebbe esserci dietro il bisogno costante di ricevere l’approvazione altrui? Quale la configurazione familiare che potrebbe portare ad una profonda insicurezza nei suoi membri?

Luisa giovane donna in carriera sempre eccellente in tutto, elicita un bisogno incessante di ricevere approvazione. Sergio uomo dai continui risultati sportivi e lavorativi eccellenti ha un costante bisogno di macinare relazioni umane senza riuscirne a portarne a termine qualcuna.

Scopriamo attraverso le loro storie: l’insicurezza.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
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Dal “Colpo di Fulmine” all’Amore – Podcast

Oggi è 14 febbraio, San Valentino, festa dell’Amore e degli innamorati, è l’occasione giusta per riproporvi un episodio del nostro podcast di “In Viaggio con la Psicologia” di qualche tempo fa.

Si parlava di amore, innamoramento e “colpo di fulmine

Buona lettura e Buon Ascolto!

“Così per amare, bisogna imparare prima a pazientare, a sapere stare da soli, ad accettare l’altro e rispettarlo; importante poi è avere fiducia in se stessi perché in fondo è nel rapporto con il proprio sé che si sviluppa il rapporto con il prossimo.”

Erich Fromm

Se vuoi puoi ascoltare l’episodio su Spotify direttamente da qui ⬇️⬇️⬇️

Amore e Psiche. Dal “colpo di Fulmine” all’Amore. – In Viaggio con la Psicologia – Spotify
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Amo il #malessere. Contemporaneità e relazioni

Nell’ultimo periodo una strana tendenza in ambito di relazioni di coppia ha preso il sopravvento.

Un giorno durante la conduzione di un colloquio clinico, una ragazzina di 12 anni parlandomi della sua cotta riferì al ragazzo con “è proprio il malessere!” accompagnando tale espressione con la faccia sognante tipica di chi è innamorata.

Successivamente, portando avanti diversi colloqui, numerosi ragazzi di una età variabile tra gli 11 e 25 anni, continuava a riportare il termine, indicandolo come carico di significato: il malessere è quel ragazzo possessivo, geloso che ti maltratta ed è grezzo -molto- nei modi. Si tratta di ragazzi tatuati con un vago segno di malavita nel volto, arroganti, presuntosi che ti lasciano in balìa di quella sensazione di malessere.

Mi sono confrontata con dei colleghi e pare che anche loro siano stati “vittima” di racconti di relazioni e sentimenti caratterizzati dalla costante e incessante ricerca di questo malessere e questo, in particolar modo, in quelle ragazzine con una media d’età di circa 13 anni. Queste ragazzine, inoltre, se non ricercano il malessere incontrano sempre ragazzi puttanieri*.

Mi ritrovo così, ancora una volta, a parlare di relazioni e questo non perché la psicologia sia fatta solo di relazioni ma per il dato visibile e tangibile che indica che di relazioni ci si ammala e di relazioni si muore.

Nel 2018 circa, cominciai ad interessarmi di malessere. All’epoca il termine era quasi sconosciuto in ambito clinico (e psicoanalitico); i colleghi psicoanalisti guardarono al tempo con certo sospetto le mie trattazioni questo perché solo René Kaës, aveva cominciato (poco dopo di me) a trattare il tema in ambito psicoanalitico francese ampliando un concetto esistente nella teoria freudiana, ma ancora non portato su un terreno contemporaneo.

Il concetto di malessere, come dicevo, esisteva nella trattazione Freudiana e psicoanalitica tuttavia non esisteva -ancora- una esplicazione del fenomeno in ambito contemporaneo e -soprattutto- giovanile, questo perché l’adolescenza con tutto il suo corredato terrorifico e terrorizante è un terreno ancora poco esplorato in un certo ambito di trattazione.

Fui colpita, al tempo, e questo molto prima che piattaforme come TikTok prendessero il sopravvento ed anche prima della pandemia che molto ha fatto per aumentare il malessere giovanile, dal quantitativo di sofferenza che una certa parte della popolazione cominciava ad elicitare. Guardavo ai social di cui non avevo alcun profilo, come una osservatrice esterna, mi giravo intorno, ascoltavo e percepivo qualcosa; questo qualcosa, circa 6 anni dopo è diventato il trend hashtag del momento il #malessere.

“L’essere viene meno con ciò che lo sostiene. Questo malessere nell’umanità dell’uomo, in un’ampia area dell’umanità, produce sia questa impregnazione cupa e melanconica che si impossessa degli animi e dei corpi, dei legami intersoggettivi e delle strutture sociali, sia questa cultura dell’eccesso maniacale e onnipotente. La questione che ci interessa è quella relativa ai principali ostacoli che contrastano il processo della soggettivazione, il divernire Io, la capacità stessa di esistere, di stringere legami e di fare società”

(Kaes, 2012, p.22).

L’adolescenza implica tutta una serie di compiti di sviluppo (e la sua risoluzione) con cui l’adolescente deve fare i conti. I problemi posti dalla rivoluzione identitaria che coinvolge la corporeità, le relazioni (intra ed extrafamiliari), l’assunzione di ruolo sessuale e simbolico adulto, divengono problematiche che impattano sulle spalle del singolo che si ritrova sguarnito sia di adeguati strumenti psichici con cui metabolizzare ed integrare tali richieste, ma anche di adeguati punti di riferimento simbolici, Tale labilità nell’universo di riferimento simbolico e il relativo crollo delle funzioni di garante metapsichico, porta ad una incapacità di offrire una adeguata risposta agli interrogativi cui l’individuo può trovarsi di fronte.

Quale la conseguenza?

Una difficoltà a collocarsi nella propria identità.

La trattazione meriterebbe uno spazio di approfondimento talmente vasto ad richiedere un locus altro, lascerò allora il lettore, con le parole di una ragazza:

“Non capisco Doc che ci sta di male a volere un malessere. A me piace proprio come mi tiene viva perché in questo fatto che ci sta , poi non ci sta che va/viene, io sento di avere un senso. La sera mi piace quando mi metto il cappuccio in testa, vado sotto il piumone e vedo le nostre foto insieme e mi sento quelle canzoni eh.. quelle deprimenti e lo immagino: dove stai stronzo.. con chi stai.. che stai facendo.. Mi pensi eh?

Mi piace l’idea di poter essere qualcosa per qualcuno parliamoci chiaramente Doc.. va dove vuole ma alla fine da me torna! Questo che vuol dire? Che anche se va altrove, con chi cazzo vuole lui, se torna da me quella importante sono io!

Io sono qui per lui, qualsiasi cosa accada. Lo aspetterò per sempre pure se mi fa piangere perché l’amore deve far piangere, no?”

-Sospiro- guardo il soffitto dello studio.. (quant’è grigio, non possiamo colorarlo che ne so, di giallo?) sospiro ancora e penso: pensare che per me l’amore è una risata grassa, grossa e continua. E’ spensieratezza, immediatezza onda rotonda vibrante. Quando penso all’amore penso a tutto: tutto ciò che è l’inverso di malessere.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
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*Noi clinici abbiamo riscontrato un uso abbondante del termine. Le ragazzine suddividono gli uomini in “puttanieri” ovvero coloro che usano e abusano di relazioni sessuali o amorose, andando di donna in donna e “malesseri” quelli fighi, quelli che sono veri uomini che ti fanno stare male e che sembrano essere diventati il centro della ricerca amorosa.

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Erik Erikson: la vita in otto stadi. PODCAST

Oggi scopriremo insieme il vasto impianto teorico proposto da Erik Erikson.
Erikson propone otto stadi di sviluppo; la sua importanza sta nell’aver proposto un modello concettuale dei bisogni del bambino che, partendo dalle originali suggestioni freudiane contenute nella teoria dello sviluppo psico-sessuale, se ne distanzia in favore di una prospettiva più marcatamente psico-sociale e funzionale.
Trova il tuo posto, mettiti comodo e parti per questo viaggio insieme a me!

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
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La Memoria – PODCAST

In questa tappa del nostro viaggio parleremo di una funzione essenziale della nostra mente.

Un grande magazzino organizzato, ma allo stesso tempo complesso, fondamentale per la nostra vita psichica: parleremo della MEMORIA.

Buon Ascolto..

La Memoria – In Viaggio con la Psicologia – Spreaker Podcast
La Memoria – In Viaggio con la Psicologia – Spotify Podcast

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La delusione

Che cos’è la delusione? Segui i nostri podcast “In viaggio con la Psicologia” su Spotify: https://open.spotify.com/show/5z4w9wr... #ilpensierononlineare #psicologia #psicoterapia #adolescentes #adolescent #mentalhealth

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
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La tua storia: “quella che non sei”

Coltiva proteggi e cura la tua storia personale. E’ tua -di nessun altro- parla di te e per te anche quando non hai parole per descrivere, voglia di raccontare o tempo per esserci.

La (tua) storia personale è tua e non richiede scuse o permessi. Se qualcuno non capisce è molto probabile che il suo personaggio -nella storia- non debba esserci e va bene così.

Siamo incroci di storie veicolate da racconti e racconti trasportati da corpi desideranti..

Ogni persona diviene personaggio di se stesso assumendo un ruolo che la contraddistingue ridiventando così persona. E ugualmente ogni personaggio ha bisogno della sua persona per farsi maschera dotata di esistenza.

Ad ogni persona spetta così la sua storia da vivere come primo attore.

La tua storia personale è potente; sa di resilienza, speranza, coraggio, paura, orgoglio, dolore, fiducia, promesse, ritardi, delusioni, ribellioni, sogni, illusioni e traguardi raggiunti.

Difendere la tua storia è l’unico modo che hai per difendere te stesso, solo in questo modo “quella che non sei, non sarai”.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
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